San Siro va semplicemente ristrutturato o è meglio demolirlo e ricostruire ex novo un altro stadio? Il dibattito divide i milanesi, ma c’è anche chi si domanda: “Siamo così sicuri che non c’è una terza via? Perché non salviamo la storia rinnovandola invece di buttarla via? Perché non immaginiamo un’operazione di grande recupero e valorizzazione non solo di un impianto sportivo, ma di un’ intera area, mettendo in campo un po’ di intelligenza, un po’ di innovazione, un po’ di finanza e un po’ di premialità urbanistica, in un mix che potrebbe dare grandi risultati. Il metodo c’è, quello di City Life e di Fiera Milano, basta applicarlo”. A parlare così è Antonio Intiglietta: oggi ricopre la carica di presidente di Gefi (Gestione Fiere), ma a metà degli anni 80 è stato assessore allo Sport al Comune di Milano, e già allora – con spirito pionieristico e in anticipo sui tempi – aveva progettato una ristrutturazione del “Meazza” all’insegna dello sport, dell’attraction retail, dell’hospitality e della promozione culturale. In una parola, “uno stadio come luogo di vita. Invece il dibattito attuale sul futuro di San Siro, che è un patrimonio, un monumento di Milano, oscilla tra una debolezza di memoria e una fragilità progettuale. Perché non può diventare anche una grande occasione di rigenerazione urbana?”.
Partiamo dall’inizio, dalla storia. Lei divenne assessore allo Sport nel 1985…
Sì, e uno dei primi problemi che ho dovuto affrontare è stato proprio quello di due grandi impianti sportivi di Milano: il Vigorelli e San Siro.
Quali erano i problemi dello stadio?
Era un impianto importante, ma vetusto. Presentava profonde infiltrazioni d’acqua del tutto incontrollate e incontrollabili, da un anello all’altro, nella struttura di cemento armato. Di fatto, era vecchio nella sua impostazione. Aveva quasi 50 anni. In più, si palesarono ben presto altre due emergenze.
Quali?
La prima era legata alla sicurezza dello stadio, che già all’epoca era fuori norma: non aveva posti numerati, ognuno entrava come voleva e come poteva, le vie di fuga risultavano ogni domenica intasate dall’assembramento dei tifosi.
E la seconda?
Alla guida del Milan subentrò Silvio Berlusconi con Adriano Galliani.
Perché era un problema l’avvento di Berlusconi?
Oltre al nodo della non più rinviabile ristrutturazione e messa in sicurezza dell’impianto, aggiunse un ulteriore tema, che poi – a onor del vero – accelerò anche l’assunzione di alcune decisioni. Diventato presidente neofita del Milan, Berlusconi avviò una campagna abbonamenti che raccolse un successo straordinario. Peccato, però, che lui e Galliani si dimenticarono di un particolare: le norme del calcio prevedevano che una quota dello stadio fosse riservata ai tifosi della squadra ospite, non si poteva riempire San Siro di abbonati.
In che modo venne risolta quella “emergenza”?
Decisi, da un lato, di intervenire sull’infrastruttura, che disponeva di ampi spazi vuoti, 10mila metri quadri sotto il primo anello, in parte oggi occupati, e – seconda mossa, attuata in tempi rapidissimi, cioè nell’intervallo tra un campionato e l’altro – portai a termine la numerazione dei posti, che all’epoca sembrò addirittura un traguardo impossibile da raggiungere. Trasformai in tribuna con posti numerati il grande parterre di San Siro che era sotto, a ridosso della tribuna d’onore, ricavando così nuovo spazio per i tifosi ospiti. Lo stadio si giovò, da un lato, di un primo intervento di manutenzione straordinaria per contrastarne il degrado e, dall’altro, grazie alla numerazione, acquistò maggiore sicurezza e un nuovo ordine. Con i posti numerati i tifosi non erano più costretti ad arrivare allo stadio quattro ore prima.
Intanto si avvicinavano i Mondiali del 1990…
Esatto. E il Comitato organizzatore, presieduto da Luca Cordero di Montezemolo, proprio per quell’occasione chiese che lo stadio avesse nuovi requisiti e nuove regole. A quel punto mi venne l’idea di dar vita a un grande intervento di ristrutturazione globale di San Siro.
L’obiettivo?
Ammodernarlo e nel contempo avviare un confronto con Inter e Milan per cederne a loro la proprietà, perché di fatto i due club erano i soggetti unici e prioritari del suo utilizzo. Aveva senso cedere loro anche un diritto di superficie per 99 anni, con un processo di responsabilizzazione definitiva.
E cosa avvenne?
All’inizio Berlusconi manifestò più di un’obiezione, perché intendeva costruire uno stadio nuovo. Una delle ipotesi era di realizzarlo verso Milano Sud, nella zona di Opera. A questa sua intenzione risposi dicendo: se il Milan vuole fare un nuovo stadio, auguri. Io volevo salvaguardare, attraverso un grande intervento di ristrutturazione, lo stadio di San Siro, che è un patrimonio, un monumento della città. Ovviamente, nelle mie intenzioni c’era anche l’idea di realizzare una concezione nuova di stadio, in chiave di hospitality e di vita non solo calcistica una o due volte la settimana, ma aperto tutta la settimana e tutto l’anno.
Oggi è il modello prevalente, ma a metà degli anni 80 era avveniristico, non crede?
Infatti fui il primo a pensare a questo tipo di soluzione.
E l’obiezione di Berlusconi fu insormontabile?
In realtà, mi invitò a un incontro riservato nella sua villa in via Rovani e gli spiegai la mia idea. Devo dire che con grande apertura Berlusconi rimase convinto e mi disse: vengo dietro alla sua idea, anzi, le metto a disposizione, gratuitamente e senza partecipare a nessuna gara di realizzazione del progetto, l’architetto Ragazzi, che era il suo architetto di riferimento. Berlusconi si dimostrò proprio interessato al contenuto della mia proposta innovativa. E lo ringraziai.
Nessun inghippo?
Ebbi invece un confronto-scontro con l’allora presidente del Coni, Mario Carraro. Il criterio con cui si sarebbero dovuti costruire i nuovi stadi del Mondiale, proprio sotto pressione del Coni, prevedeva al loro interno anche la pista di atletica. Sostenni con forza che gli stadi del calcio non sono impianti polivalenti, ma monofunzionali, hanno una loro specificità preminente, e il pubblico deve essere intorno al campo secondo la logica degli stadi inglesi. Oltretutto né il Comitato organizzatore, né il Coni, né il Governo erano disposti a dare una lira ai Comuni per ristrutturare gli stadi. A quel punto, mi buttai a capofitto sulla mia idea di ristrutturazione.
Che cosa prevedeva?
Tre anelli e non due e mezzo come oggi; la realizzazione, nella parte dove adesso c’è il tabellone luminoso, di 400 suite, che dopo un’analisi di marketing erano già ampiamente coperte da sponsor, che avrebbero pagato un affitto annuale per farle diventare il punto di hospitality dei loro clienti; nei 10mila metri quadri sotto il primo anello, avevamo progettato negozi e centri commerciali, aperti prima e dopo la partita, tutti i giorni; un tetto per la copertura indoor, ma allora non c’erano ancora le normative che lo consentivano; un servizio di ristorazione e di catering, aperto tutti i giorni per tutto l’anno; la costruzione di un Museo della storia del calcio milanese, anch’esso aperto tutto l’anno. La mia idea era che lo stadio dovesse vivere 365 giorni all’anno, non solo nelle giornate di campionato o di Coppa, ma attraverso il museo, attraverso le suite, attraverso eventi musicali e culturali, ovviamente con le dovute tutele per il manto erboso del campo. E poi: l’ampliamento dei parcheggi riservati; un centro alberghiero e di hospitality connesso allo stadio e alle sue attività; l’allestimento di campi di allenamento e pre-partita per Inter e Milan. Ripeto: tutto questo avveniva nell’86-87, per fare di San Siro un luogo di intrattenimento, di incontro e di rappresentanza.
E invece?
Nel 1987 c’è la crisi della giunta Tognoli, arriva Pillitteri e un anno dopo il Consiglio comunale boccia la mia proposta su indicazione del Pci, perché si riteneva che le 400 suite fossero un’operazione immorale invece che un luogo d’incontro. Pillitteri mi chiese comunque di sostenere il progetto, ma visto il cambio di maggioranza, non accettai. Così quell’idea venne accantonata e ridimensionata. E pensare che quel progetto si autofinanziava tutto, anche perché era prevista la cessione alle due società. Berlusconi era d’accordo, Pellegrini, allora presidente dell’Inter, invece no. Era un problema di visione. Dunque, il “Meazza” attuale, tra l’altro realizzato allora a spese del Comune, è solo una parte di quel progetto.
Qui finisce la storia, ma l’attualità riapre una nuova pagina. In questi giorni a Milano si discute e si dibatte: meglio ristrutturare o meglio demolire San Siro per costruire uno stadio tutto nuovo?
Io invece mi domando: non è possibile una terza via, utilizzando l’area globale in cui lo stadio è connesso? Perché non avere il coraggio di un ripensamento anche urbanistico con processi di valorizzazione già sperimentati con successo nel modello Fiera di Milano?
Lei come vede il prossimo San Siro?
Lo vedo come un grande intervento di recupero, in cui giocano un ruolo le tecnologie, non solo costruttive, le conoscenze attuali del business retail, come dimostra il caso City Life, le possibilità di sviluppo di hospitality e di connessioni con tutto il patrimonio adiacente allo stadio. Non vale la pena di salvare una storia, rinnovandola, invece di buttarla via? Con un po’ di intelligenza, un po’ di innovazione, un po’ di finanza e un po’ di premialità urbanistica si potrebbe ottenere un grande risultato.
Per esempio?
Perché non immaginare per San Siro un’opportunità anche indoor, aprendolo d’estate e coprendolo d’inverno? Perché non dotarlo di un campo sintetico, in modo da organizzare concerti e manifestazioni culturali senza rovinare il manto erboso? Perché Inter e Milan non trasferiscono qui la loro sede, i loro centri sportivi, il loro museo, realizzando un grande centro di hospitality, con alberghi e retail, intorno?
Servirebbe un salto di creatività e di coraggio sia del pubblico che dei privati, non crede?
Ma il modello vincente c’è già: Fiera di Milano. Una Fondazione di natura privata, costituita come Spa, che ha costruito, con la valorizzazione di un piano urbanistico, l’attuale City Life e poi con quei soldi, incassati con la valorizzazione, ha realizzato, insieme agli organizzatori che hanno pagato la loro quota d’affitto, il nuovo quartiere fieristico di Rho-Pero: un’operazione che ancora oggi tutto il mondo guarda con rispetto. Perché non si può fare una cosa analoga per San Siro e la sua area? Perché, anziché degradarla o svuotarla, non la si rilancia come punto di aggregazione dello sport, del tempo libero, del retail e della cultura?
(Marco Biscella)