Luigi Zanda è un parlamentare di lungo corso, protagonista di numerose vicende politiche e uomo di governo, quindi non uno sprovveduto. Per cui è difficile catalogare la sua proposta di aumentare gli stipendi dei parlamentari come un inciampo da addebitare all’inesperienza né tanto meno all’incompetenza.
Nella sua nuova veste di tesoriere del Pd – incarico ricevuto da Zingaretti appena eletto – ha ritenuto di mettere in chiaro il suo pensiero. “Lo Stato ha il dovere di sostenere la politica, altrimenti la politica si piega agli interessi di parte” è il concetto che ha espresso in una coraggiosa intervista a Repubblica. Su cui però ha raccolto solo critiche feroci e una netta presa di distanza dello stesso Zingaretti.
Si ha l’impressione che il neo-tesoriere abbia messo in atto una provocazione – ora che i populisti sono al governo e hanno raggiunto il loro scopo – per capire quale sia ancora il livello di attenzione che l’opinione pubblica riservi al tema del finanziamento pubblico ai partiti e in particolare ai costi diretti della politica, come gli stipendi di quella folta schiera di persone che con la politica ci campano.
Il ragionamento di Zanda è abbastanza chiaro e ha un fondamento di verità: in questi anni gli stipendi dei parlamentari italiani hanno subito una drastica decurtazione rispetto a quelli dei colleghi europei e di quelli di molte regioni italiane. Su di essi si è concentrata un’attenzione ossessiva, in quanto considerati dimostrazione massima dell’esistenza della “casta”. Senza contare il fatto che anche le voci come quelle per benefit e rimborsi sono ormai ridotte a pochi spiccioli. Per cui sono molti gli onorevoli che si lamentano apertamente di non riuscire – come i comuni mortali – ad arrivare alla fine mese.
Zanda sa benissimo che questa situazione sta mettendo a rischio la fonte principale degli introiti del Pd, rappresentata dai contributi del gruppo parlamentare. Come ha svelato qualche mese fa l’inusuale iniziativa del suo predecessore Bonifazi, che ha perseguito i deputati morosi del suo stesso partito con una sfilza di decreti ingiuntivi, cresce il numero di quelli che non vogliono versare più i loro contributi, allargando così a dismisura il buco del debito.
Va però dato atto al Pd di essere rimasto l’unico partito a mantenere un’attenzione sui conti interni e a cercare di reperire risorse per sostenere la propria iniziativa. Ad esempio nulla sappiamo dei soldi che i deputati 5 Stelle versano alla Casaleggio, né come si comportino quelli di Forza Italia o i deputati leghisti, alla prese con la restituzione dei famigerati 49 milioni. La stessa proposta di Zingaretti di lasciare il Nazareno (sede ereditata dalla gestione precedente con annesso uno sfratto esecutivo per morosità) e aprire nuove sedi aperte ai cittadini ha un costo che è necessario coprire.
Per non parlare dei lavoratori, messi tutti o quasi in cassa integrazione dalla gestione Renzi-Martina, e che ora reclamano di conoscere il loro destino.
Renzi in una delle sue ultime e-news spende parole di entusiastico riconoscimento per il lavoro fatto dall’ex tesoriere Bonifazi. Dice di lui “che è stato per oltre cinque anni una garanzia assoluta. Gli abbiamo tolto il finanziamento pubblico e ha tenuto in piedi un’organizzazione mastodontica che i miei predecessori avevano riempito di assunzioni (c’erano i rimborsi, prima, e si assumeva in libertà: noi non abbiamo assunto nessuno). Francesco ha fatto ciò che ha potuto con questi margini ristretti”.
Ovviamente non si è fatta attendere la replica dei dipendenti del Pd: “L’organizzazione mastodontica (di cui parla Renzi, ndr) che i predecessori avevano riempito di assunzioni è composta da lavoratori in regime di cassa integrazione straordinaria da quasi due anni, di cui molti a zero ore. Durante la segreteria Renzi e la tesoreria Bonifazi sono state sostenute ingenti spese e miopi investimenti, soprattutto a favore di terzi per campagne comunicative, malgrado le risorse disponibili fossero già esigue e il finanziamento pubblico già cancellato”.
Senza contare le sottoscrizioni dirottate verso la Leopolda e le fondazioni di riferimento della corrente, e senza riaprire qui la drammatica vicenda de l’Unità – assai poco trasparente – che ha segnato in modo irreversibile la rottura di Renzi con un mondo di sinistra, sembra chiaro che bisogna collocare l’iniziativa di Zanda in un quadro più generale di difficoltà da cui il Pd non può uscire semplicemente raccontandosi all’infinito il successo inaspettato delle primarie vinte da Zingaretti.
Accanto agli ostacoli politici che sono davanti al cammino del nuovo leader, non sono da sottovalutare anche le insidie rappresentate da un partito ridotto a pezzi e con le casse piene di debiti in scadenza.