Quando il libro, uscito in questi giorni, è stata annunciato ho temuto che si sarebbe trattato di un lavoro tardo-deamicisiano: un libro Cuore del Ventunesimo Secolo. Oppure di un canovaccio per un film buonista di Frank Capra o di Roberto Benigni. Gli ingredienti ci sono tutti: la povertà nelle zone interne della Puglia degli Anni Cinquanta, il figlio di braccianti in una famiglia dove si mangia carne una volta ogni due settimane, il richiamo della musica, l’impossibilità di studiare, il lavoro da adolescente negli alto forni, il primo trasferimento a Milano (sempre come operaio), le serate da batterista nella città del viscontiano Rocco e i suoi fratelli, la conoscenza di calibri dell’avanguardia come Luciano Berio, Sylvano Bussotti e Franco Donatoni, l’avvio alla musica ‘colta’, un profluvio di composizioni sino al Premio Abbiati (l’Oscar della musica classica) nel 2013 per la sua opera oratorio Mare Metallico.
Nelle mani di Francesco Mazzotta (Dall’acciaieria alla fabbrica dei suoni pp. 166, Zecchini Editore, 2019, €23) la vita e la storia di Giovanni Tamborrini non sono trattate come una vicenda per le ‘anime belle’ ma come ma un affresco di storia politica e culturale dell’Italia del Novecento in cui si ripercorrono le vicende umane e artistiche di un musicista assolutamente originale, e compositore visionario profondamente legato alla propria terra. Giovanni Tamborrino nasce a Laterza, in provincia di Taranto, dove vive. Ed ha solo 17 anni quando diventa operaio dell’Italsider, all’inizio degli anni Settanta. Ma in testa ha una sola cosa: la musica. Realizza il suo sogno. E nel giro di poco tempo da batterista di musica leggera nei locali di provincia diventa il percussionista di Luciano Berio, Sylvano Bussotti e Franco Donatoni, mostri sacri dell’avanguardia colta.
Fulminato da Carmelo Bene e dalla sua lezione sulla phoné, riscrive i codici del teatro musicale contemporaneo con il linguaggio personalissimo dell’Opera senza canto, celebrata da importanti istituzioni come l’Università di Bologna e il Teatro alla Scala. E sulla sua strada ritrova l’acciaieria con Mare metallico, che in ricordo dei suoi trascorsi di operaio dedica, con il Premio Abbiati vinto nel 2013, a Taranto e alla sua gente, schiacciata tra lo stabilimento di oggi e la vecchia Italsider, nella quale l’ex tuta blu guardava sbigottito le colate d’acciaio dal “reparto agglomerati” già immaginando di fondere la musica in una personale fabbrica di suoni, fatta di strumenti tradizionali ma anche di materiali di scarto e non convenzionali.
Tuttavia, il libro racconta la storia di un antiaccademico protagonista della scena musicale contemporanea in grado di operare, da meridionale, una riflessione su un Sud che non si abbandona alla storia negata, ma al contrario ne scrive una propria. Corredato da un’appendice fotografica che ci porta nei luoghi dell’azione, nonché di un catalogo aggiornato dei lavori di Tamborrino, ‘il volume costituisce una testimonianza preziosa e necessaria – scrive nella prefazione Enrico Girardi, critico musicale del Corriere della Sera – perché, leggendo il libro, ci sembra di ascoltare le composizioni del musicista pugliese attraverso le orecchie (e la fluida penna) del saggista’.
Il racconto è appassionante e, attraverso le varie tappe dell’artista pugliese, ci mostra le varie sfaccettature della società italiana dalla seconda metà del Novecento ad oggi, dalla ruvida Puglia alla Milano delle avanguardie artistiche e di nuovo alla Puglia del Festival della Terra delle Gravine, nel quale Tamborrino, instancabile sperimentatore, riesce a realizzare una perfetta corrispondenza tra scelte espressive e identità culturale, iscritta nella particolare geografia della zona, ponendosi come precursore di quanto sta accadendo oggi con Matera 2019.
Non interessa quindi solo i musicologi ma tutti coloro che meglio vogliono capire le trasformazioni del Paese.