Ormai da tempo la politica estera americana nel Medio oriente, e più in generale nei Paesi musulmani, si rivela non particolarmente di successo e, rispetto a Barack Obama, Donald Trump si dimostra più tonitruante ma altrettanto inconcludente. La sua strategia potrebbe essere forse più lineare negli obiettivi, ma la sua attuazione è spesso contradditoria e un buon esempio è dato dal rapporto con Israele.
Il prossimo 9 aprile si terranno le elezioni legislative per il rinnovo della Knesset, il Parlamento israeliano, con il premier uscente, Benjamin Netanyahu, in gravi difficoltà per i problemi giudiziari in cui è coinvolta la moglie e che ora si sono riflessi direttamente su di lui. Trump è intervenuto ripetutamente in suo soccorso con iniziative utili per una ripresa elettorale di Netanyahu, ma piuttosto rischiose sul piano internazionale. Qualche commentatore ha attribuito queste iniziative a un rapporto personale molto stretto con il premier israeliano, mediato da Jared Kushner, genero di Trump e suo apprezzato consulente, la cui famiglia è da lungo tempo amica di Netanyahu. Non è da escludere, tuttavia, che Trump consideri Netanyahu il male minore e che una sua sconfitta potrebbe dar luogo a un governo ancor più rigido, rendendo ulteriormente difficile la già difficile politica americana nella regione.
Un primo aiuto a Netanyahu è stata la decisione, nello scorso maggio, di spostare l’ambasciata statunitense a Gerusalemme, decisione accolta molto bene dal popolo israeliano, che ha visto realizzato il sogno di Gerusalemme capitale di Israele, pur avallato solo dagli Stati Uniti e da pochi altri. Questa mossa ha suscitato reazioni violente nel mondo arabo e provocato morti e feriti tra i dimostranti palestinesi, mettendo in difficoltà molti Paesi che vi hanno visto un improvvido aggravamento della situazione.
In parallelo a questa iniziativa, Trump e Kushner hanno cominciato a parlare di un piano per una soluzione definitiva della questione palestinese, ambiziosamente definito “l’accordo del secolo”. Dopo quasi un anno dal suo annuncio, a parte indiscrezioni giornalistiche, nulla si sa del contenuto del piano, la cui pubblicazione è ora annunciata da Trump per dopo le elezioni in Israele. Il piano è stato accolto comunque negativamente dai palestinesi, che temono un definitivo abbandono della soluzione dei “due Stati”, e con un certo scetticismo da parte di altri governi, anche occidentali. L’aiuto a Netanyahu sta qui nell’aver rinviato la pubblicazione: da un lato, si avverte che per l’attuazione del piano occorre un governo “allineato”, come quello del premier uscente, dall’altro, si evita che le concessioni ai palestinesi, che non possono essere assenti in un tale accordo, possano essere sfruttate elettoralmente dagli oppositori di Netanyahu.
Un più diretto e pesante appoggio è arrivato da Trump nei giorni scorsi con l’attribuzione a Israele della sovranità sul Golan, di per sé una sorta di “bufala”, poiché gli Stati Uniti non hanno alcuna autorità in proposito, come si è affrettata a dichiarare l’Onu. E’ pensabile, quindi, che sul piano elettorale non ci saranno grandi effetti, ma costituisce un chiaro messaggio di “vicinanza” a Israele e, in particolare, al suo attuale premier. Inevitabili le violente reazioni degli Stati arabi, anche di quelli che si oppongono al regime di Assad in Siria, contro il quale l’iniziativa è diretta. E’ probabile che il Golan, come Gerusalemme capitale di uno o due Stati, siano parte degli scambi previsti nel citato piano, e che Trump stia, per così dire, mettendo le mani avanti.
Nella stessa ottica si può vedere la visita in Libano del segretario di Stato americano Mike Pompeo, un paio di giorni prima che il presidente libanese, Michel Aoun, partisse per una visita ufficiale a Mosca. Da qui, Aoun ha sottolineato ancora una volta la situazione, ormai diventata insostenibile, dei profughi siriani in Libano, avvertendo l’Europa che il problema potrebbe diventare molto presto suo. Mosca si è subito dichiarata disposta ad aiutare Beirut ad uscire da questa oggettiva crisi.
Pompeo non sembra aver affrontato il problema dei profughi, ma ha invece posto un radicale dilemma al governo del Libano: o scegliere di essere uno Stato “indipendente e fiero”, o stare con i “terroristi” di Hezbollah e l’Iran suo protettore. Sullo sfondo i sostanziosi contributi degli Usa al Libano, soprattutto al suo esercito nazionale, tuttora meno forte delle milizie Hezbollah. Quest’ultimo è uno dei peggiori nemici per Israele, tra l’altro maggiore responsabile della sua ritirata dal Libano del Sud nel 2000, dopo una ventennale occupazione militare.
Hezbollah fa parte dell’attuale governo libanese e nelle ultime elezioni ha conquistato la maggioranza dei seggi in Parlamento. Pressoché unanime, quindi, la risposta del presidente Aoun, del ministro degli Esteri Gebran Bassil e del presidente del Parlamento, Nabih Berri: Hezbollah è parte del popolo e della politica libanese, i suoi rappresentanti sono stati eletti dal popolo libanese e non possono essere considerati terroristi. Soprattutto, e su questo l’accordo è generale tra i libanesi, è da evitare ad ogni costo la ripresa di una guerra civile, che ha già lungamente insanguinato il Paese.
Quello di Pompeo appare un intervento a gamba tesa nella politica interna di un altro Paese, ma appare altrettanto come un esempio di eterogenesi dei fini: almeno per il momento sembra rinforzata l’unità nazionale in Libano, che include necessariamente Hezbollah, sono stati riportati alla memoria i passati conflitti con Israele e ora la Russia rischia di essere sentita più vicina.