Perché investire sulle start-up giovanili

Un rapporto presentato dalla Fondazione Cariplo riaccende i riflettori sull’importanza delle start-up e su quel che manca loro oggi

Lo studio “Startup innovative e sviluppo dei canali di finanziamento” è stato presentato a Cariplo Factory: l’hub per imprenditoria giovanile lanciato dalla Fondazione nel cuore dell’area ex Ansaldo di Milano. Giuseppe Guzzetti, che si sta congedando dal suo doppio impegno di leader della Cariplo e dell’Acri, ha voluto rimarcare così che la sussidiarietà – compito costituzionale delle Fondazioni – è una frontiera di sviluppo non solo per il welfare solidale, ma anche per la crescita economica e occupazionale, per la valorizzazione dei talenti imprenditoriali nel sistema-Paese. E il paper – curato per l’Acri da Silvia Marinella Fontana dell’Università di Padova – trova la sua sintesi politico-economica proprio nell’indicare l’investimento sulle start-up come via maestra e per molti versi obbligata per un’Azienda-Italia che voglia essere davvero sussidiaria a se stessa, ai suoi giovani, al loro desiderio di ripresa.

Sono meno di 10mila le imprese censite come “start-up innovative” a luglio 2018 dal ministero dello Sviluppo economico ai fini delle agevolazioni. Sono ancora solo lo 0,5% delle società di capitali, ma aumentano. Non solo in Lombardia, che ne ospita un quinto e soprattutto custodisce metà dei sette miliardi di brevetti registrati dalle start-up italiane. Cresce anche la consapevolezza che “innovazione” non è solo operatività in un settore a forte contenuto tecnologico, ma capacità di portare cambiamento reale in un prodotto o processo produttivo tradizionale. Resta il vincolo – per una start-up – di fare da palestra per laureati magistrali, dottorandi e dottorati: che sono il grosso dei 45mila addetti. Anche le start-up hanno fatto i conti duri con la lunga recessione italiana: oltre la metà risulta non ancora in equilibrio economico e i tassi di non-sopravvivenza si fanno sentire (il 6% di quelle costituite nel 2014 non sono più attive).

È su questo versante che risalta in misura critica il tema del finanziamento. Chi investe su se stesso, sulle proprie “business idea” e sulle proprie capacità di ricerca applicata inizia con fondi altrettanto propri: al massimo condivisi con il venture capital (che in Italia pesa tuttavia sul Pil quattro volte meno della media Ue). E se il credito bancario comincia ad avere fiducia nelle start-up solo parecchio dopo lo “start”, né lo Stato, né i fondi regionali si fanno mai davvero trovare all’appuntamento. Alle start-up italiane servirebbero almeno due miliardi di euro per allinearsi in “pari opportunità” con quelle di Francia, Germania e Gran Bretagna: a maggior ragione quando l’Italia ha in parte disincagliato la politica industriale con il piano nazionale “4.0”.

Le Fondazioni dell’Acri sono già impegnate in un salto di qualità che vuole mantenere a doppia cifra annua il ritmo di crescita annua delle erogazioni dedicate al mondo dell’innovazione e dell’imprenditoria giovanile. (Il rapporto non lo dice: ma gli Enti si sentono controcorrente quando la politica economica nazionale guarda al reddito di cittadinanza e alla flat tax “a pioggia”).

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