Nessuno conosce meglio l’Algeria degli algerini. E infatti eccoli in piazza anche di martedì nella capitale Algeri e in altre località del paese. I venerdì non bastano più: occorre gridare un “no” ancora più forte alle ingannevoli manovre del regime, volte a cambiare lo scenario ma solo in superficie, affinché tutto nella sostanza resti com’è e com’è stato in questi vent’anni di dittatura.
Gli algerini non hanno creduto per un istante che le dimissioni di Bouteflika equivalessero a un’uscita di scena degli uomini forti del regime a lui legati. Sapevano che questi si sarebbero nascosti dietro la legalità costituzionale per condurre la famosa “transizione” verso una soluzione a loro favorevole.
Sulla base dell’art. 192 della Costituzione, ecco allora il Parlamento sanzionare la nomina a presidente ad interim di Abdelkader Bensalah, non a caso destinato da Bouteflika all’incarico strategico di presidente della camera alta. Bensalah si è detto pronto a “guidare la transizione che consentirà al popolo algerino di esercitare la sua sovranità”. Peccato che Bensalah sia tra gli esponenti del regime di cui gli algerini hanno richiesto l’immediata rimozione.
Insieme a Noureddine Bedoui, nominato da Bouteflika a capo del governo il mese scorso, e Tayeb Belaiz, il presidente del Consiglio costituzionale, Bensalah forma il gruppo delle cosiddette “tre Bs”, con il significato dell’abbreviazione Bs in lingua inglese particolarmente evocativo della considerazione riservatagli dagli algerini. Sono loro il simbolo di un’oligarchia che ha fatto sprofondare l’Algeria “in un mare di corruzione”, come recita uno dei manifesti esposti da una studentessa nel corso delle manifestazioni.
È la nuova generazione a trainare la protesta, esigendo che la condizione posta come non negoziabile sin dall’inizio della crisi non venga disattesa. Questa condizione si chiama “cambiamento”, un cambiamento vero senza concessioni al clan di Bouteflika. Pertanto, via Bensalah e tutti i “Bs” del regime, elezioni libere e regolari subito e non tra 90 giorni, come previsto dall’art. 192 su cui il regime sta riponendo tutte le sue speranze di sopravvivenza.
Gli algerini sanno bene che in tre mesi il regime può trasformarsi in una nuova dittatura, reprimendo la protesta e arrestandone i leader. I cannoni ad acqua, i gas lacrimogeni e i bastoni impiegati oggi dalla polizia in tenuta antisommossa per disperdere i manifestanti ad Algeri e impedirgli di marciare verso il palazzo del governo, sono un segnale preoccupante in tal senso.
L’establishment non ha alcuna intenzione di mollare la presa ed è pronto ad affrontare col pugno duro l’opposizione se questa dovesse proseguire nella contestazione.
In tutto ciò, cosa faranno i militari? È stato il capo dell’esercito, il generale Gaid Saleh, a consentire che venisse superata la situazione di stallo dovuta al rifiuto di Bouteflika di dimettersi come richiesto dagli algerini, invocando l’applicazione della procedura d’impeachment per la sopraggiunta incapacità dell’ottantaduenne presidente a svolgere l’incarico, sempre secondo l’art. 192.
La mossa improvvisa di Saleh aveva tutta l’aria di essere concordata con il clan di Bouteflika, in modo da gestire congiuntamente la “transizione”. Ma la nomina di Bensalah sembra non sia stata gradita dai vertici militari, che avrebbero preferito un uomo meno inviso agli algerini come presidente ad interim, disattendendo quanto previsto dall’art. 192.
Se si è creata una frattura tra i “Bs” e i militari; questi ultimi potrebbero quindi far pendere l’ago della bilancia a favore degli algerini, mediando con il governo le loro istanze affinché vengano accolte. Inoltre, se intendono davvero svolgere il ruolo di garanti del passaggio dell’Algeria a una nuova epoca, i militari sono chiamati a impedire che dalla protesta emergano i Fratelli musulmani come forza in grado d’influenzare gli eventi e il processo di transizione.
I Fratelli musulmani, appoggiati dall’alleanza islamista tra gli emiri del Qatar e la Turchia di Erdogan, puntano a sfruttare la crisi per conquistare il potere in pieno stile Primavera araba. Il capo del partito Giustizia e Sviluppo, Abdullah Jaballah, il braccio politico della Fratellanza algerina, ha già fatto proprie le argomentazioni dell’opposizione, invocando un vero cambiamento, “senza le stesse facce invise alla popolazione”, e lo svolgimento di elezioni libere e regolari. Precisando naturalmente che l’ambizione del suo partito è quella di “costruire una democrazia nel quadro di principi islamici”.
Quanto accaduto in Egitto, dove si è resa necessaria una nuova rivoluzione per rimuovere i Fratelli musulmani dal governo del paese, e l’esperienza tunisina e libica, non ammettono obiezioni sulla necessità di non legittimare i Fratelli musulmani come interlocutori, impedendogli di sfruttare nuovamente una legittima rivolta popolare contro un regime corrotto e autoritario per avanzare la propria agenda islamista.
Italia ed Europa, i grandi assenti di questa crisi, avete finalmente capito da che parte stare nella crisi algerina?