Nel 1873 Giovanni Pascoli, non ancora diciottenne, affrontò un concorso per ottenere un sussidio, valido per intraprendere gli studi di lettere all’Università di Bologna, concesso allora generosamente da quel Comune. Fu il fratello maggiore a scuotere il poeta, affranto dai lutti familiari, caricandolo quasi a forza sul treno, convincendolo a tentare l’avventura. Il timido ragazzo provinciale si trovò così in un’aula della prestigiosa Università felsinea per sostenere la temuta prova. A dettare il tema di italiano si presentò Carducci, in persona.
Pascoli, nei Ricordi di un vecchio scolaro, pubblicati nel 1896 (ora in Poesie e prose scelte, Mondadori 2002) ricorda così l’episodio: “A un tratto un gran fremito, un gran bisbiglio: poi, silenzio. Egli era in mezzo alla sala, passeggiando irrequieto, quasi impaziente. Si volgeva qua e là a scatti, fissando or su questo or su quello, per un attimo, un piccolo raggio de’ suoi occhi mobilissimi. ‘L’opera di Alessandro Manzoni’, dettò. Poi aggiunse con parole rapide, staccate, punteggiate: Ordine, chiarezza, semplicità! Non mi facciano un trattato d’estetica. Una pausa di tre secondi; e concluse: Già non saprebbero fare. Sorrise a questo punto? Chi lo sa? S’indugiò ancora un poco e uscì”.
In qualche modo, allo spaurito ragazzino, riuscì di scrivere qualcosa. Qualche giorno dopo sostenne l’orale, sempre al cospetto di Carducci, anche qui convinto di aver fatto una magra figura. Al momento della proclamazione dei risultati, Pascoli era del tutto sfiduciato: solo sei studenti avrebbero avuto diritto al sussidio. “Sonò il primo nome nella sala… era il suo. In quel momento egli, il povero ragazzo, vide lampeggiare un sorriso. Sì, la testa del poeta si era illuminata d’ un sorriso subito spento”.
A distanza di tanti anni, Pascoli scrisse di non aver mai dimenticato quel sorriso. In esso riconosceva giustamente l’essenza stessa dell’insegnamento, vivo nel rapporto unico e insostituibile tra maestro e allievo. L’insegnante, dotato di uno sguardo attento e valorizzatore, riesce a cogliere nell’allievo doti che egli stesso non sa di possedere. Socrate la chiamava maieutica. Nell’allievo sensibile questo provoca una riconoscenza infinita. Con accenti mirabili, ne parla Albert Camus ne Il primo uomo.
L’episodio torna alla mente nel momento in cui le scuole superiori sono alle prese con i preparativi per il nuovo esame di Stato, rivoluzionato da una normativa entrata in vigore ad anno scolastico già iniziato. Le nuove disposizioni prevedono cambiamenti notevoli per le prove scritte, ridotte a due con l’eliminazione della terza prova multidisciplinare e con l’adozione di griglie nazionali di valutazione; vengono attribuiti nuovi punteggi, che valorizzano l’iter del triennio; si introducono nuove modalità e contenuti di prova orale, riformando il cosiddetto colloquio, in cui troveranno posto degli spunti di partenza – potrebbe trattarsi di un’immagine o un testo contenuti in una busta scelta dal candidato fra tre proposte (sic!); a questo seguirà una relazione sull’esperienze di alternanza scuola-lavoro, ora denominate Pcto (percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento) e un percorso di Cittadinanza e costituzione, forse l’innovazione più fumosa tra le tante uscite dal cilindro del nostro ministero.
Vanamente i docenti hanno sperato in un soprassalto di ragionevolezza da parte del legislatore, tale da indurlo a desistere dal proposito di cambiare le carte in tavola a gioco già iniziato: non sarebbe stato più saggio introdurre tali rilevanti novità a partire dalla classe terza, così da assicurare il tempo necessario a docenti e studenti per prepararsi in modo più adeguato? Non sarebbe stato più rispettoso nei confronti dei ragazzi concludere un percorso didattico a cui erano stati allenati duranti questi anni (si pensi, solo per fare un esempio, alla tipologia del saggio breve, criticabile finché si vuole, ma che gli alunni conoscevano bene)?
Invece, tra polemiche e malumori, le scuole sono costrette ad una corsa ad ostacoli per arrivare pronte all’appuntamento, tra riunioni defatiganti e richieste di chiarimenti per lo più inevase: molto viene demandato al lavoro delle commissioni. Appare decisamente poco invidiabile il ruolo dei presidenti. Pur senza entrare nel merito dei vari aspetti della riforma, risulta evidente che il tempo dedicato alla didattica è sempre più ridotto: le ore riservate all’effettuazione delle prove Invalsi – obbligatorie ma non considerate requisito per l’ammissione -, alle simulazioni e alla preparazione dei nuovi percorsi hanno costretto gli insegnanti a limitare ulteriormente i contenuti disciplinari. Per riferirsi solo alla materie umanistiche, sarà già miracoloso arrivare a far leggere ai nostri ragazzi qualche poesia di Saba e di Quasimodo, o ad accennare a qualche tematica di storia successiva alla Seconda guerra mondiale. Toccherà ai docenti universitari constatare che i nostri ventenni non hanno mai sentito nominare Moro, il terrorismo, Bassani o Fenoglio.
Da qualche tempo, assisto a questo curioso fenomeno: durante delle conferenze che tengo ad adulti/anziani, anche non particolarmente acculturati, mi accade di constatare che molti di essi ricordano passi danteschi, anche a memoria, o che hanno letto Il giardino dei Finzi-Contini o Il Gattopardo: i nonni, spesso provvisti della sola licenza media, sono più colti dei nipoti liceali.
Cosa ci insegna l’episodio ricordato da Pascoli? Da un lato, “l’ordine, la chiarezza e la semplicità ” richiesti agli allievi. Di fronte alle spietate “analisi” dei testi letterari, al proliferare incongruo di “griglie” sempre più complicate per la valutazione degli elaborati, occorre tornare a modalità chiare e sintetiche di formulazione dei quesiti e di verifica dei risultati, che non mortifichino la libera espressività giovanile, magari sottoponendo loro le pagine più belle del nostro patrimonio letterario. Non si tratta certo di riproporre modelli del passato, anche giustamente superati; sappiamo però che la venerazione per quegli autori non trattiene in sé tanto un ripiegamento nostalgico, quanto un seme di conoscenza e di speranza per il futuro, fiducioso di poggiare sulla grandezza della nostra tradizione culturale.
In secondo luogo, ogni riforma non deve mai dimenticare la lezione di umanità che abbiamo ereditato dai classici, esemplarmente testimoniata dal ricordo pascoliano. Questo dovrebbe essere il criterio ultimo per giudicare la bontà di una riforma: ogni provvedimento che la facilita è da considerare buono, tutto ciò che la ostacola o la complica è da rigettare.