Lo sguardo e l’analisi politica rimangono fissi e preoccupati sul momento del grande cambiamento e sullo sbocco possibile. Non stiamo parlando del cosiddetto “governo del cambiamento”, che è solo un agglomerato, ambiguo e obbligato, addirittura programmato per contratto, generato dall’esplosione del risentimento nelle urne del 4 marzo 2018 in Italia.
Questa ammucchiata non è in grado di modificare nulla in Italia e aspetta solo il nuovo piazzamento elettorale europeo, neanche fosse una corsa di cavalli, oppure, a risultati conclusi, un’indefinita ridefinizione dell’architettura istituzionale creata a Bruxelles e a Strasburgo con l’Unione Europea.
Il grande cambiamento riguarda invece gli effetti ancora sconosciuti della forzatura di una globalizzazione gestita male, che sta travolgendo tutti gli assetti dell’ordine mondiale, a livello geopolitico; tra i diversi stati nazionali, con le loro storiche istituzioni che sembrano diventate bardature anacronistiche; tra le stesse classi sociali, che sembrano in via di estinzione e che hanno espresso da oltre due secoli gli equilibri della democrazia rappresentativa. Un sistema che ha retto positivamente i rapporti umani e sociali, nonostante sia stata cancellata e compromessa per alcuni periodi. Adesso questo sistema viene nuovamente rimesso in discussione, attraverso uno svuotamento dei suoi capisaldi istituzionali o inquinato da una burocratizzazione soffocante e autoritaria.
Il problema più inquietante che abbiamo di fronte in questi ultimi anni è che si è di fatto usciti dal “vecchio mondo” (usiamo questa immagine) ma non siamo ancora entrati nel nuovo. E, al contrario di altri periodi storici, non si vede una prospettiva credibile né sul piano istituzionale, né sul piano economico, né su quello sociale. È questa carenza di prospettiva, di visione, che genera una diffusa sensazione di insicurezza e che spiega i contraccolpi sociali, la sfiducia nelle istituzioni, gli improvvisi mutamenti di opinione politica che si stanno vivendo in quasi tutto il pianeta.
Siamo in una sorta di “terra di mezzo”, un periodo di ambiguità tra “vecchio scomparso” e “nuovo che non arriva”, una sospensione storica di cui anche Antonio Gramsci aveva scritto.
È vero, i grandi cambiamenti sono sempre legati a un lungo periodo di incubazione, ma rispetto al passato questa volta la prospettiva appare ancora più problematica, più confusa e in alcuni casi incomprensibile da cogliere.
Chi ha impresso, per ragioni di potere e di speculazione o per l’evolversi di meccanismi quasi automatici, il processo incontrollato di globalizzazione che stiamo attraversando, ha trasformato di fatto la “vecchia talpa” di Karl Marx in un demone che si agita in modo scomposto nella profondità della società. La prima operazione andata in porto è stata la decadenza e l’attacco alla politica, all’arte di ordinare una società, di valutare un compromesso, di prevedere, di comprendere e di tentare una visione.
In tutte le epoche di grandi cambiamenti le forze politiche si formavano spontaneamente e contribuivano, tra contraddizioni e intuizioni, ad accompagnare i mutamenti (la sinistra) o a calibrarli in forme di conservazione ragionata (destra moderata). Non è un caso che oggi chi governava i cambiamenti stia collassando elettoralmente in tutto il mondo (la sinistra) e chi si colloca su una sponda moderata venga ugualmente trascurato. E inoltre, non è un caso che entrambe queste posizioni non abbiano visioni o prospettive da proporre.
Tutto questo avviene a vantaggio di forze culturalmente stravaganti e confuse, che “predicano” una sorta di democrazia diretta in versione digitale (una rimasticatura demenziale di Rousseau), oppure cercano di coniugare localismo con globalismo in una versione da bocciofila di periferia.
Si pensi solamente alle spiegazioni fornite dagli apprendisti stregoni di questa epoca rispetto al politico disegnato da Winston Churchill: “Deve guardare quello che succede oggi, prevedere quello che accade tra una settimana, tra un mese e tra un anno. E, sempre, deve anche spiegare perché non è accaduto quello che aveva previsto”.
Rispetto a una simile disciplina, la decadenza culturale e politica di oggi è documentata dall’elenco delle cose scritte e dalle previsioni fatte in questi ultimi trent’anni (in modo tragicomico) dalle cosiddette élites che si sono sostituite alle vecchie classi politiche, quelle che sono state letteralmente “braccate” da alcuni ordini dello Stato, da forze estremistiche e settarie, da campagne mediatiche forsennate guidate dai “capitani di sventura” soprattutto in Italia, da poteri forti internazionali che hanno “deciso”, direttamente o indirettamente, le scelte delle nazioni e da coincidenze episodiche che appaiono spesso inquietanti.
Esempi? Si pensi al libro del “cortigiano” Francis Fukuyama su La fine della storia, alla marginalizzazione se non demonizzazione di John Maynard Keynes, alla filosofia della “nuova banca” che assomiglia tanto a quella che portò al cataclisma del 1929, alla riscoperta della teoria economica “neoclassica”, all’euforia monetarista dei Milton Friedman e anche di un Ben Bernanke, che dopo dieci anni fa opera di pentimento. Per l’Italia, basta solo la compagnia di giro definita da Paul Krugman “La notte degli Alesina viventi”.
Con queste nuove élites mondiali, che si sono dichiarate eredi delle politica (attività ritenuta superflua), abbiamo una “nuova religione”: il “dio mercato”, che in questo caso è proprio “l’oppio dei popoli” come scriveva Marx, o il regno degli economisti-odontoiatri come scriveva Keynes.
Nella “terra di mezzo”, in cui oggi siamo costretti a vivere, si deve avere il coraggio di reagire, di recuperare la forza della nostra storia. Si può sfuggire al doppio fuoco delle trincee avversarie, con la forza della cultura, la difesa della democrazia e il desiderio di realizzare i propri diritti individuali e collettivi.