All’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, il Giovedì, Venerdì e Sabato Santo sono stati nel segno di Mozart, di cui, con Ton Koopman sul podio, sono state eseguite due composizioni, una molto nota (la sinfonia in do maggiore n.42 ‘Jupiter’ K 551) ed una conosciuta ed apprezzata da grandi direttori d’orchestra ma poche volte presentata in concerto (la Messa in do minore per soli, coro e orchestra K427). Ho ascoltato il concerto Sabato 20 aprile; nonostante si fosse nel ‘lungo week end’ pasquale, e le condizioni metereologiche fossero ottime. L’auditorio (circa 3000 posti) era abbastanza pieno. Koopman non è solo un noto direttore d’orchestra, ma un filologo (principalmente di musica barocca) ed un accademico.
Il brano più atteso era la Messa, composta da Mozart come ‘voto’ per la guarigione della fidanzata (in seguito, moglie) Kostanze, ed eseguita, per la prima volta, nella Peterkirche di Salisburgo nel 1783. Il lavoro rappresenta il ritorno di Mozart alla musica sacra. Per la prima volta nella sua vita egli compone una Messa senza i vincoli stilistici formali impostigli dall’arcivescovo Colloredo, Principe di Salisburgo; non deve quindi sorprendere se nello spartito troviamo uno sfoggio di fantasia e ispirazione inusuale rispetto alla sua produzione precedente. Il lavoro non è stato, però, ma completato perché il giovane compositore venne assorbito da altri progetti,
Il Kyrie inizia con una breve introduzione orchestrale la cui drammaticità è resa più acuta dagli strumenti a fiato prima e dall’ingresso del coro di impostazione arcaica. Sull’introduzione del Kyrie non è molto chiara, su alcune partiture, la presenza di un quarto trombone, il trombone soprano, strumento pochissimo usato anche a quei tempi, presente solo nel Kyrie, e nelle edizioni di oggi eliminato dal brano. Con il Christe eleison la musica si addolcisce e l’assolo del soprano viene accompagnato dal coro e dai fiati. La ripresa del Kyrie ci riporta alla drammaticità di partenza. Il Gloria, molto ampio, si compone di sette episodi tra cui Laudamus te (cantabile), lo struggente pezzo per soprano Domine Deus (con accompagnamento contrappuntistico degli archi), Quoniam (nella forma di terzetto), Jesu Christe (un adagio), Cum Sancto Spiritu (una fuga di raffinata composizione), il suggestivo Qui tollis (in Sol minore con doppio coro ad otto voci e basso ostinato). Il Credo pur solamente abbozzato contiene, tuttavia, abbastanza informazioni per un suo completamento ragionevolmente fedele.
Nelle esecuzioni su disco (Bernstein, Welser-Mőst) e di quelle non frequenti nei concerti della sinfonica dell’Accademia di Santa Cecilia, l’ultima nel 2011 (Gui, Sawallisch, Gatti, Nagano), la Messa in do minore termina qui. Tuttavia, Koopman è uno studioso ed un filologo: non solo a ricostruito alcun brani sulla base di appunti di Mozart (ad esempio, il Credo) ma ha completato la Messa utilizzando sulla base della partitura di una Messa di Michael Haydn (fratello minore del più noto Franz Joseph) che era in effetti disponibile nella biblioteca della Peterkirche nel 1783. L’assunto è che dato che la composizione veniva utilizzata durante una celebrazione eucaristica, si sarebbero comunque impiegati brani musicali per il Sanctus, il Benedictus, l’Agnus Dei, i due Hosanna ed il Dona Nobis. Il Sanctus che culmina con la doppia fuga nell’Osanna è composto per doppio coro. Il Benedictus è un pezzo che unisce complessità formale ad una estrema raffinatezza. In questa versione, interpolata, si è trattato di una prima per l’Italia e forse di una prima mondiale.
L’organico orchestrale e, soprattutto, corale è indubbiamente molto più vasto di quello che poteva essere ospitato nella Peterkirche, chiesa molto bella, prossima al Duomo di Salisburgo, ma di non grandi dimensioni. La fusione tra Mozart e Michael Haydn è una buona trovata per completare la Messa, ma si avvertono due distinte mani: Mozart rivolto al futuro che alla fine del Settecento era già colmo di presagi del secolo successivo, e Haydn, invece, con lo sguardo al barocco. Lo si sente soprattutto nelle parti vocali: le arie (ed il duetto) dei due soprani (Maria Grazia Schiavo e Roberta Mameli) nei primi numeri terse e colme di sentimento mentre, ad esempio, il quartetto della seconda parte in cui ai soprani si aggiungono il tenore ed il basso (Tilman Lichdi e Luca Tittolo) densi di coloratura e vocalizzi. Nel complesso, comunque, una scelta innovativa che il pubblico ha gradito e salutato con calorosi applausi.
La sinfonia n. 41 in do maggiore K 551 (chiamata anche ‘Jupiter’) è l’ultima e forse più nota sinfonia di Mozart. Viene eseguita spessissimo nelle stagioni dell’Accademia d Santa Cecilia e l’orchestra la conosce a menadito. La sua caratteristica è la sublime sintesi tra stilemi barocchi e stilemi classici. Koopman – come da prevedersi – ha accentuato quelli barocchi e sottolineato con efficacia l’irruzione del modo minore nel modo maggiore. Gli applausi non sono mancati.