Si può ben dire che il silenzio sia la più radicale e spietata forma di potere. Il sopruso per eccellenza, il sovvertimento di ogni dialogo amoroso e, dunque, pietoso.
La questione non è certo relativa alla mera mancanza di parola. Anzi, il silenzio assassino è sempre accompagnato da parole inutili, dal cicaleccio, dal rumore di fondo generato da una parola priva di ogni significato. Il silenzio criminale è sempre ben camuffato da un ordine del discorso finalizzato. Scarnificare la parola: questo è l’obiettivo; renderla esangue, dunque inesperta, quindi astorica, infine deontologica.
La mite di Dostoevskij è, oltre che un potente racconto, un vero e proprio trattato di guerriglia sul terreno della semantica in cui l’arma principale è costituita dalla superfluità della parola.
Quando tutto è superfluo intorno a noi, anche l’uomo diviene superfluo, come insegna Turgenev, un sovrappiù esistenziale, di cui la realtà può fare decisamente a meno.
E quando tutto è perduto, la morte si intromette nella storia, come una fine e insieme come un inizio, come unico possibile innesco narrativo. Perché l’unica parola pertinente, volenti o nolenti, ha a che fare con lo scandalo e la memoria della morte.
La Mite, con la sua morte, costringe il suo marito aguzzino, torturatore e insieme omicida indiretto, a parlare, finalmente. Lui che aveva vissuto tutta la vita parlando in silenzio, vivendo “intere tragedie in silenzio”. E finalmente parlando – lo annota lo stesso Dostoevskij nella prefazione – “gradatamente egli davvero chiarisce l’accaduto, mette ordine nei suoi pensieri. La successione dei ricordi evocati ineluttabilmente lo conduce alla verità. La verità ineluttabilmente eleva la sua mente e il suo cuore”.
Siamo nel cuore di una vicenda coniugale che si conclude con un suicidio. Ed è proprio sul piano della coniugalità che si possono verificare, come in un laboratorio attrezzato, i meccanismi essenziali delle relazioni malate e deformi che caratterizzano la cosiddetta modernità. Ne parla magistralmente Bauman in una delle sue ultime opere: Amore liquido. La coniugalità, che san Paolo VI esalta nel suo statuto specifico e nel suo unico e particolare linguaggio, sembra essere passata in secondo piano rispetto ad una generica socialità familiare, ad un’autorappresentazione euforica quanto effimera, ad una sua stessa vaga definizione semantica, confusa e soprattutto costretta ad un solipsismo spietato.
Vi è come un ripiegamento onanistico della coniugalità. E l’onanismo è innanzitutto amore senza discorso.
La coniugalità narrata in La mite si caratterizza innanzitutto come un’assenza di liturgia amorosa. E il silenzio liturgico è la radice di ogni assenza di comunicazione e, dunque, di relazione. Allora l’unico discorso possibile, tra due antropologie incomunicanti (quella maschile e quella femminile) se non dentro un’alleanza liturgica, diviene quello della sfida: “Indovina tu stessa, pensavo, e apprezzami”. Una sfida mortale, in cui ogni discorso che non sia misericordioso, si fa inevitabilmente un discorso di potere: “Ella era l’unica persona che io avevo preparato per me”.
Chiedersi se sia possibile una relazione coniugale senza una liturgia propria, è un po’ come chiedersi se è possibile una relazione con il Dio Persona senza la preghiera (discorso misericordioso) ed un’appropriata liturgia. Nulla è più inutile e mortale di un amore astratto, privo di carne e di parola.
Quello che cresce intorno ai protagonisti della novella di Dostoevskij è insomma una relazione priva di una religione, che impazzisce intorno al mero trascendente maschile, incapace di scendere sulla terra, di incarnarsi. E allora il trascendente altro non può essere che un enigma, come enigma è – e pervicacemente vuol essere – il marito della Mite.
La Mite si getta da una finestra abbracciando un’antica icona della Vergine. Era un ricordo caro. Quell’icona era appartenuta alla sua famiglia. Era dunque un elemento centrale di una liturgia conosciuta, naturale. E se la porta via, quell’immagine, strappando dalla relazione coniugale l’unica forma comunicativa possibile. Perché è della donna il compito supremo di trasformare la vaga trascendenza maschile in una religione, strappando l’uomo ad una congenita astrazione, senza linguaggio e senza segno, per incarnarla in una vera e propria esperienza.
La morte, dunque, riporta per un momento l’uomo a contatto con la realtà, si potrebbe dire, con la terra e con la carne.
“Perché, perché è morta?”. All’uomo non resta che consolarsi con l’unica ragione che può comprendere nella sua semplicissima – quasi banale – antropologia: “S’era spaventata del mio amore”.
Una donna spaventata nell’esperienza d’amore è una donna tragica. Viene in mente quanto Ersilia scrive al suo Metello carcerato nel capolavoro di Vasco Pratolini: “Tu conosci il tuo mestiere e io il mio (…). So fare i fiori, so fare la treccia, volendo saprei anche mettere in prova un vestito, ma non gli do troppa importanza, se no mi ci sperdo. Io ambirei vivere tranquilla: tu, Libero ed io, magari anche un altro figlio se dovesse venire. Mi basterebbe un pezzo di pane e un gocciolo di vino. Ma so che non è possibile, perciò ti do ragione. Però, te l’ho detto un’altra volta, tu non mi devi spaventare. E quando mi scrivi, non mi trattare come una fidanzata. (…) Se ti scrivessi Metello mio come t’amo, mi sembrerebbe di pigliare in giro te e di pigliarmi in giro”.
Ovviamente gran parte delle letture de La mite si è attestata al rapporto di potere che il maschio esercita sulla femmina, o sul tema della coercizione silenziosa che l’uomo impone alla donna. Una lettura politica, insomma, che non conduce da nessuna parte. Anzi amplifica gli equivoci relazionali e semantici che ormai affliggono la vita di coppia. Solo riandando allo specifico antropologico di questi due esseri e al mistero della loro composizione, fuori da ogni retorica mielosa, si può riscoprire che l’unico rapporto possibile è quello fondato sulla carità, sull’esercizio costante della carità, verso se stessi e verso l’altrui, inconoscibile universo.
Ma va da sé, chi scrive è maschio, dunque va dichiarato – almeno alla fine – il paradosso di una qualsiasi riflessione in proposito. Ma di questo s’era già accorto, con la sua proverbiale ironia, il buon Karl Kraus quando scriveva Con le donne monologo spesso.