Quando sento parlare di brand mi viene l’orticaria. È una questione personale, perché in alcune aziende per cui ho lavorato li ho sentiti nominare solo quando il business vero, quello che produceva un prodotto, era ormai alla frutta. Allora non si cercava di innovare, di investire, di spremersi il cervello per migliorare il prodotto, ma si prendeva la notorietà del brand aziendale e si cercava di rideclinarlo per fare qualcosa di diverso.
Vi ricordate la Gazza Bet che cercava di sfruttare la notorietà in campo sportivo della Gazzetta dello Sport per lanciare la Rizzoli nel difficile campo delle scommesse online? Un fallimento totale. O quando si è cercato di vendere prodotti online attraverso il sito di Grazia, comprando addirittura un sito in Inghilterra? Tre capi o poco più venduti alla settimana. Quindi quando l’amministratore delegato di Fca Mike Manley ha dichiarato di essere sicuro «al 100%» della sopravvivenza dell’azienda «perché è fondamentalmente una “house of brand”» mi sono venuti i sudori freddi. Una riga sotto spiegava: «Non penso che nessuno dei nostri marchi avrà un’immagine incolore». Noi crediamo che il brand Fiat abbia un futuro, ha detto citando il successo della iconica 500 che ha toccato il record di vendite dopo dieci anni dal lancio: «I nostri brand hanno mostrato di poter sopravvivere».
Lasciamo perdere la classifica dei brand che hanno la maggior reputazione che vede i marchi di Fca ben lontani dalle posizioni di vertice e diamo per scontato che nessuno al mondo, se non Ferrari, ha un nome più importante di Alfa Romeo, Lancia e, forse, anche Maserati. Ma senza acqua la papera non galleggia. Se non ci sono investimenti, nuovi prodotti all’altezza del marchio e la dimostrazione di un’eccellenza tecnologica non c’è futuro per nessuno. Specie in un settore che sta vivendo una rivoluzione che lascerà sul campo, in senso figurato, morti e feriti. Chi di voi ricorda i marchi Necchi o Borletti? Chiedete a un ragazzo cos’era Olivetti. Thonet aveva una florida industria di mobili che produceva anche le sue famose sedie di ciliegio curvato. La fabbrica non c’è più da un secolo e sono rimaste le sedie e il nome. Ma chiunque le produce, anche l’Ikea. E di questi esempi ne esistono a centinaia.
Il brand è un innegabile vantaggio se lo si sfrutta commercialmente con prodotti che rispondono alle esigenze, pratiche e di immagine, dei clienti. Come è avvenuto per Jeep che ha moltiplicato le vendite in giro per il mondo. Diventa uno spreco inconcepibile se lo si associa a prodotti che funzionano poco, che tradiscono le aspettative, che non stanno al passo con le innovazioni messe in campo dai concorrenti. Ogni riferimento agli scarsi risultati di vendita di Maserati e Alfa Romeo è chiaramente voluto.
Per non parlare di uno dei marchi più famosi nel mondo automobilistico ridotto al lumicino da Fca per quella che nel baseball si chiamerebbe “scelta difesa”, ovvero il voler puntare le scarse risorse su altro. Stiamo naturalmente parlando di Lancia: il brand, per citare Manley, enne volte campione del mondo di rally, che semplicemente non esiste più, ristretto esclusivamente dentro una piccola city car lanciata una decina di anni fa.
Certo si può fare tutto: rilanciare Lancia, spingere su Maserati e Alfa Romeo, consolidare Jeep e puntare sui marchi americani di nicchia, ma occorrono i “picciuli” e, questa volta, ne servono davvero tanti. Forse troppi.