Mi sono spesso chiesto che senso abbia passare la notte ad imbrattare i muri con ghirigori senza senso, interiezioni da fumetto, per di più di dimensioni cubitali, arrampicandosi sulle pareti dei depositi di qualsiasi tipo, cercando di arrivare sempre più in alto, con affreschi sempre più grandi quanto monosillabici. Credo che costi fatica: un vero e proprio lavoro notturno. Se tutte quelle energie fossero riservate a tinteggiare gli appartamenti dei privati, apprendendo il nobile lavoro del pittore, gli ignoti imbrattatori guadagnerebbero molto di più di un insegnante. Mi riusciva pertanto difficile capire tanto dispendio di energie nelle ore notturne per non guadagnare nulla, né dire assolutamente nulla, a nessuno. Mi sbagliavo.
Dietro quelle fatiche notturne c’è verosimilmente un mondo, un frammento di vita metropolitana che, di fatto al di fuori di qualsiasi legame con il contesto civile urbano, trova nelle arrampicate notturne e nel defatigante lavoro di imbrattatura un’opera da mostrare ai propri compagni, creando così una propria “galleria” dalla quale è possibile al singolo autore di risalire nel sottobosco del proprio gruppo, mostrando le proprie capacità nello stesso momento in cui irride l’esterno; sbeffeggia, a suo modo, quello stesso mondo nel quale, per sua stessa volontà/incapacità, non entrerà mai.
Se una tale ipotesi fosse realistica, i muri spettacolarmente imbrattati costituirebbero la testimonianza di un’ulteriore frangia di marginalità sociale che aspira a farsi notare. Ed è proprio la nostra stessa società della comunicazione che, raccattando tutto ciò che può fare notizia, suggella una simile attività dandole un nome e conferendole così una sua legittimità.
Ciò consente di trovare una spiegazione anche alle incomprensibili aggressioni ai danni di persone indifese o rese tali da un sistema di procedure legali che brilla per la sua ripetuta e costante inefficacia. Non è un caso che le aggressioni vengano filmate e condivise nel gruppo dei pari. Poterle mostrare è ancora più importante del poterle compiere. Si tratta di un vero e proprio valore aggiunto che fa di ogni idiota un soggetto che si può esaltare della propria impresa: “quello sono io” dice orgoglioso il baby di turno, mostrando il filmato alla propria figura di riferimento (sia questa un compagno, un adulto o addirittura un componente dei servizi sociali). Fare facendosi notare, quindi entrare nel circuito dell’universo social per poterlo raccontare e potersi in qualche modo qualificare, fornisce un formidabile additivo espressivo ed un’utile scorciatoia ad una notorietà di gruppo e di quartiere, comunque nel proprio ambiente deviante, altrimenti precluse.
L’impunità non solo giudiziaria, ma anche procedurale, è il corollario penoso di questa vicenda. Dopo il pensionato Antonio Cosimo Stano, morto in ospedale dopo mesi di aggressioni, è proprio il vicinato di Manduria ad essere la seconda vittima. Infatti l’accusa di omertà nei confronti dei vicini suona insopportabilmente farisaica e proprio per questo insopportabile. Chiamare le forze dell’ordine? Per fare cosa? Con quali risultati? Esiste sul serio un sistema giudiziario in grado di essere efficace? O non c’è, forse, il rischio più concreto di ritrovarsi, due o tre giorni dopo, la baby gang appena inutilmente denunciata, davanti la propria abitazione? Magari assieme a genitori, parenti, amici inferociti, pronti a dare la loro “lezione”? Oppure, qualora ciò non fosse possibile, rendersi capace di un atto di anonima ritorsione (che va dall’incendio della vettura del denunciante ad un’aggressione ai suoi figli). Alla paura del povero pensionato ridotto alla solitudine fa seguito l’umiliazione di un vicinato abituato a subire, a bere ogni giorno l’amaro calice della propria impotenza sociale e civile.
Qualunque discorso educativo – di fatto certamente indispensabile – non può fare a meno di prendere atto di questa disastrosa impotenza al quale la comunità di Manduria è condannata e che il nostro sistema giudiziario ha contribuito a rendere possibile. Non c’è nessuna possibilità di recupero del degrado sociale se, accanto agli indispensabili interventi educativi, non si restituisce a quanti volevano intervenire il diritto concreto di farlo senza rischiare ritorsioni. Ma non c’è anche nessuna possibilità di recupero se non si ricostruisce il concetto di responsabilità educativa, a cominciare dagli stessi genitori. I primi che non potevano non sapere, i primi a non essere intervenuti, consentendo una simile escalation di idiozia.
Comunità e famiglia debbono allora essere restituiti ai loro ruoli naturali che si concretizzano al diritto ad intervenire per la prima ed al dovere di farlo per la seconda. Solo a queste condizioni il personale insegnante – l’ultimo anello in questa catena di defezioni ad essere chiamato in causa – può realmente avere delle possibilità di recuperare il suo ruolo, pretendendo il rispetto di tutti come regola aurea di ogni sano “clima di classe”. Si impone così una modifica sostanziale delle procedure ed un recupero preciso delle responsabilità genitoriali. Qualsiasi discorso educativo non può iniziare a muovere i suoi primi passi senza il riconoscimento di queste responsabilità ed il recupero al diritto che uno Stato deve saper garantire, se non vuole che sia l’anti-Stato della criminalità organizzata a prendere il suo posto.