Le ha ritirate fuori la Lega, forse per temporeggiare sul caso Siri, forse perché servono a governare i territori. Fatto sta che le Province, lungi dall’essere riabilitate, per ora hanno riscosso la bocciatura di M5s: “chi rivuole le province si trovi un altro alleato” ha detto ieri Di Maio. Il fatto è che non stiamo assistendo a un dibattito sulle riforme, piuttosto a una serie di riforme senza dibattito, perché oggetto di scambio o di ripicche tra soci di governo. E l’apporto di M5s è distruttivo, secondo Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano. Con lui abbiamo fatto il punto su province, autonomia differenziata, riduzione del numero dei parlamentari, referendum approvativo. E classe politica.
Professore, per M5s le Province sono un “poltronificio”, per la Lega un ente necessario a dare quei servizi che i comuni non riescono ad offrire. Chi ha ragione?
Messa così è una polemica surreale. Si dà per scontato che le Provincie siano state eliminate. Ma le Province esistono, come esistono i consigli provinciali, e come esistono i presidenti di provincia, che, per la cronaca, sono stati tutti rinnovati tra il 2017 e il 2018, anche se nessuno se n’è accorto, perché si fanno elezioni di secondo livello. E le Province continuano ad operare, anche se in modo diverso dal passato.
Allora di che cosa parliamo?
È evidente che si tratta soltanto di un’occasione in più per fare campagna elettorale e per marcare le differenze in una fase in cui ogni partito al governo ha bisogno di smarcarsi e di galvanizzare un po’ il proprio elettorato. C’è da sperare che queste tre settimane passino in fretta, perché se ne sentiranno ancora.
Qualsiasi tema sembra in grado di far tremare il governo.
Diciamo che il giochino di essere al tempo stesso opposizione e maggioranza, su cui si regge questo governo, finora ha tenuto e può tenere ancora un po’. Il punto è che se si alzano troppo i toni, o si va avanti per troppo tempo ad innescare polemiche, il giocattolo si rompe. Anche perché c’è chi non aspetta altro, in modo molto paziente.
Tornando alle Province, Delrio si vantava di averle eliminate. Lei cosa pensa di quella riforma?
Sa, non è che con un paio di leggi ordinarie si può aggirare il fatto che le Province siano previste dall’art. 114 Cost. Tant’è vero che le Province ci sono, e ci saranno finché qualcuno non si prende la briga di intervenire sul 114. Ci aveva provato il Governo Monti con un decreto legge (201/2011) a trasformare le Province, da enti politico-amministrativi, come erano stati fin dagli anni 50, in enti di coordinamento comprensoriale delle attività dei Comuni. E sempre con decreto legge (95/2012) si era affidato al Governo il compito di riorganizzare le Province sulla base di indicatori di popolazione e grandezza territoriale forniti dai ministeri, alla faccia della nozione di autonomia locale. L’argomento, ai tempi, era quello dei risparmi da realizzare, e l’obiezione era quella che le funzioni esercitate dalla Province – strade, scuole e trasporti extraurbani – a chiunque fossero andate, avrebbero dovuto essere comunque finanziate.
Un’obiezione fondata?
Sì, tant’è vero che i risparmi sono stati minimi, a fronte di uno sconquasso complessivo nella fase di riorganizzazione. La cosa divertente è che nel 2013 la Corte costituzionale (dec. 220/2013) dichiara che riforme organiche di questa portata, che toccano il livello costituzionale, non si possono fare con decreto legge e annulla tutto. Tocca al Governo Letta far partire un ennesimo processo di riforma delle province che viene chiuso da Renzi con la legge Delrio (56/2014): una legge portata a casa con un maxi-emendamento su cui si è dovuto porre la fiducia, e pertanto scritta come una finanziaria: il classico esempio di legge illeggibile, fatta di un articolo unico e 151 commi. Non so se rendo l’idea del quadro normativo in base al quale, dal 2011, si trova ad operare chi gestisce questi settori. E non parlo della questione delle Città metropolitane, perché quello è un capitolo a sé.
Ci è stato detto per un buon quindicennio che tagliarle era un bene perché avrebbe fatto risparmiare soldi allo Stato. Per non parlare della lottizzazione politica (le “poltrone”). Come stanno le cose?
Stanno che, se del riordino dei livelli intermedi di governo non si fosse parlato nella lettera del 5 agosto 2011 al Governo italiano, firmata da Trichet e Draghi, non ci troveremmo in questa situazione surreale con interventi legislativi sbagliati fatti, sotto l’ansia dell’urgenza, dal “governo dei tecnici”, e poi rabberciati in qualche modo da Letta e Renzi. Ma, comunque, quello del riordino organizzativo è un punto che politicamente può essere rilevante, ma non lo è granché da un punto di vista pratico.
E perché?
Perché il problema vero è, evidentemente, il finanziamento delle funzioni e il riparto delle dotazioni. Ed è dal 2015 che nelle finanziarie approvate si prevedono tagli continui dei trasferimenti, tanto da rendere ogni anno a rischio la predisposizione dei bilanci previsionali. Ad esempio, che, dopo la Delrio, la Corte costituzionale sia arrivata nel 2015 ad annullare il bilancio della Regione Piemonte su impugnazione di qualche Provincia perché non riservava le dotazioni minime necessarie allo svolgimento delle funzioni assegnate per legge (dec. 188/2015), dovrebbe dirla lunga sulla situazione attuale.
L’autonomia differenziata è ferma. I presidenti di Camera e Senato non hanno saputo dire se le intese Stato-Regioni sono emendabili dal Parlamento o no. Salvini chiude, Di Maio vuole prendere tempo. Lei cosa dice?
Guardi, quello del coinvolgimento del Parlamento nel rapporto tra Governo e Regioni, in questo genere di procedimenti, è un problema vecchio come il mondo, che si è proposto ancora negli anni 70 ai tempi dell’approvazione degli Statuti ordinari. Basterebbe adottare anche qui, come era stato fatto allora, il sistema delle procedure informali con un passaggio in Commissione Affari costituzionali delle Regioni interessate e il problema sarebbe risolto. Anziché dover andare ad un’alternativa tra il ratificare o meno il testo, ci sarebbe un margine di dialogo tra Parlamento e Regioni anteriore alla votazione in Aula. Non riesco a credere che i funzionari parlamentari queste cose non le sappiano. Se non si fa, o non si vuole fare, è evidente che i problemi sono altri.
Intanto va avanti il ddl costituzionale M5s di riduzione del numero dei parlamentari, ma la Lega frena. Cosa significa dal punto di vista costituzionale ridurre il numero dei parlamentari?
Non significa nulla, ed è l’ennesima riforma specchietto per le allodole. Non ci sono evidenze scientifiche di nessun genere in ordine al fatto che una riduzione del numero dei parlamentari abbia effetti sulla qualità della funzione rappresentativa esercitata dalle Camere. Né che incida sulla efficienza dei lavori delle Camere: quello semmai è un problema di Regolamenti interni. Semplicemente è l’ennesima versione dei discorsi anti-casta che si sentono in giro – trasversalmente – da un po’ di anni, e che proseguono la linea delle polemiche sulle “scandalose” indennità e pensioni dei parlamentari.
È puntualmente quello che sta avvenendo. E invece?
Non si capisce che facendo questo genere di discorsi non si fa altro se non squalificare le Camere e la politica che vi si produce, e si contribuisce a fare avvitare la situazione. Il problema – e lo capiscono tutti – non è il numero dei parlamentari, o il numero di ore di lavoro di ciascun parlamentare, come ci ripetono certi giornalisti zelanti. Il problema è la qualità e la selezione della classe politica: una selezione che in Italia si è interrotta 25 anni fa, ai tempi di Tangentopoli.
Non appena si guardano le cose un po’ più a fondo si arriva allo stesso punto, Mani pulite e le sue conseguenze. Perché?
Ma perché l’Italia è l’unico, tra i grandi paesi industrializzati, ad aver eliminato, dopo la caduta del Muro, un’intera classe politica, esattamente come un qualunque paese del Patto di Varsavia. Ci siamo decapitati, credendo di decapitare il Sovrano. E i risultati oggi sono sotto gli occhi di tutti. Molto dell’irrilevanza politica dell’Italia sullo scenario internazionale dipende da questo passaggio. E da questo dipende anche molto dell’irrilevanza dell’Italia in sede europea. Per rimediare a tutto questo, e ridare dignità alla politica, tagliamo il numero dei parlamentari.
C’è anche un’altra riforma sparita dai radar: quella sul referendum approvativo. Cosa ne pensa oggi rispetto a quanto ci eravamo detti qualche tempo fa?
Ha ragione. Dimenticavo che in parallelo alla riforma sul numero dei parlamentari sta procedendo anche l’introduzione del referendum approvativo o, come la chiamano, l’iniziativa popolare rafforzata. Diciamo che ne penso anche peggio. Un paio di settimane fa il ministro Fraccaro, che ha in cura la cosa, in una sua giornata milanese ha avuto la cortesia di intervenire in Cattolica ad un incontro sulla democrazia diretta: segno di grande garbo e di grande disponibilità. Peccato che alla fine il testo che rischia di andare in approvazione disporrà che, per approvare una legge su qualunque materia, sarà sufficiente il consenso del 25% dell’elettorato e non ci sarà nessun quorum di partecipazione.
Ciò significa?
Potenzialmente è una riforma di portata deflagrante. Per capirci, una legge potrà essere tranquillamente approvata da un quarto degli elettori, e potrà altrettanto tranquillamente intervenire in materia di finanza pubblica. In teoria le variazioni di bilancio si possono fare con legge popolare. Dopodiché non è per niente chiaro perché mai il Parlamento non potrebbe il giorno dopo, o sei mesi dopo, o un anno dopo, abrogare o modificare il tutto. In quel caso che si fa? Si va in piazza e si grida al golpe da parte del Parlamento? Ad approvare quella legge non è stata la maggioranza dei cittadini, ma semplicemente il 25% degli elettori. Perché mai il Parlamento, che rappresenta la maggioranza di quegli stessi elettori, non dovrebbe intervenire su quella legge? Tutto questo viene presentato come un esempio di democrazia diretta in stile svizzero, e giustificato sulla base del ragionamento per cui, avendo eliminato il quorum di partecipazione, la gente sarà più incentivata ad andare a votare. E voterà di più. Ecco, mi sembra un ottimo esempio del discorso che facevo prima sui processi di selezione della nostra classe politica, e sul fatto che ci siamo decapitati credendo di decapitare il Sovrano. Solo che adesso, anziché Sovrano, la chiamiamo Casta.
Gli equilibri di governo e le elezioni europee non hanno condizionato mai così tanto l’agenda politica delle “riforme”. È questo il primato della politica? Non si stava meglio sotto i tecnici?
Guardi, è evidente che questa maggioranza, a parte il folklore elettorale, punta tutto, dopo le elezioni, su un cambio di indirizzo in sede di Parlamento europeo e quindi di composizione della Commissione. E si aspetta maggiore ragionevolezza sui conti pubblici. Per questo anche quel discorso sulle clausole di salvaguardia, che ormai è diventato ossessivo, deve essere preso per quello che è. Le clausole di salvaguardia sono un espediente contabile inventato per compiacere i nostri controllori di Bruxelles. In finanziaria ci stanno, se non ricordo male, dai tempi dell’ultimo Governo Berlusconi, e da allora sono diventate moneta corrente. Il punto è l’atteggiamento di Commissione e Bce sui conti pubblici. Come ogni anno il rischio vero è quello di dover mettere in atto, in autunno, un politica di tagli in una fase di stagnazione o di crescita limitata.
Di crescita si parla molto in questi giorni. In modo serio o no, secondo lei?
Che si sia passati, negli ultimi trimestri, da un -0,2 a un +0,2, come non era una tragedia prima, non è un successo adesso: siamo sempre ai margini dell’errore statistico. Certo è che se non si possono fare politiche di spesa in fasi negative del ciclo economico, perché ci sono vietate, c’è poco da lamentarsi della stagnazione. In questo contesto capirà che parlare di politica o di primato della politica non ha molto senso. Sotto i tecnici ci stiamo ancora.
La sua previsione?
A meno di sconquassi elettorali imprevisti, credo sia ottimistico immaginare nel breve periodo un netto cambio di indirizzo in sede europea. Non ci sono solo i burocrati della Commissione, più o meno zelanti a condizionarci. Ci sono gli interessi dei nostri “amici” europei, Francia e Germania in testa. E quegli interessi non vengono meno con le elezioni del Parlamento europeo.
(Federico Ferraù)