LIMA (Perù) — Il 21 giugno 2017 in un altro “Visti da Lima” avevo scritto che quando fossero venute alla luce tutte le implicazioni dello scandalo Odebrecht, il più gigantesco fenomeno di corruzione della storia, provocato dall’omonima impresa brasiliana di costruzioni che a partire dal 1987 ha pagato oltre un miliardo di dollari di tangenti a politici di mezza America Latina, si sarebbe scatenata una vera apocalisse e che, in particolare, “il Perù rischiava di stabilire il poco invidiabile record di essere il primo paese al mondo ad arrestare tutti i 5 presidenti che ha eletto (e alcuni anche rieletto) dal 1985 a oggi” (in effetti avevo scritto “dal 1990”, ma è un refuso).
Questa triste profezia si è purtroppo realizzata tra la mattina di mercoledì 17 aprile, quando Alan Garcia, presidente dal 1985 al 1990 e dal 2006 al 2011, si è sparato mentre la polizia entrava in casa sua per arrestarlo, e il pomeriggio del Venerdì santo (coincidenza quanto mai simbolica), quando è stato arrestato PPK, ovvero Pedro Pablo Kuczynski, eletto nel 2016 e dimessosi qualche mese fa, lasciando il posto al suo vice Martín Vizcarra, dopo aver prima concesso e poi revocato l’indulto ad Alberto Fujimori, presidente dal 1990 al 2001 e in carcere dal 2005. Alejandro Toledo, successore di Fujimori, è latitante negli Usa con un ordine di arresto e relativa richiesta di estradizione pendenti, mentre Ollanta Humala, predecessore di Kuczynski, è in libertà vigilata in attesa di processo dopo un anno di carcere preventivo. Infine, lo scorso ottobre era stata arrestata anche Keiko Fujimori, figlia di Alberto e leader del partito di maggioranza Fuerza Popular, sconfitta per un pugno di voti negli ultimi due ballottaggi presidenziali.
Per chi come me ha passato in Perù quasi un quarto degli ultimi 15 anni e lo considera la sua seconda patria è davvero triste assistere al ripetersi dell’incubo già vissuto dall’Italia con Mani Pulite, i cui discutibili metodi sono ormai diventati un modello per tutte le Procure del mondo occidentale, come ha giustamente scritto Giulio Sapelli. Peccato che il resto del suo articolo sia una ricostruzione a dir poco fantasiosa della vicenda, che vorrei qui cercare di chiarire. Anche perché almeno su un’altra cosa Sapelli ha ragione: quello che sta accadendo quaggiù, nella pressoché totale indifferenza dei mass-media e dei politici europei, ci riguarda tutti molto da vicino.
Cominciamo quindi col dire che considerare Alan Garcia un socialista è gravemente fuorviante. Il suo partito, l’Apra (Alianza Popular Revolucionaria Americana), nacque come movimento di estrema sinistra, poi gradualmente divenne socialista e certamente lo era ancora durante il primo governo Garcia, che però fu un’autentica catastrofe: il Pil diminuì del 25%, banche e investitori stranieri fuggirono, l’inflazione sfiorò il 1000% all’anno, la povertà estrema crebbe dal 17% al 44%, acqua corrente ed elettricità divennero un lusso per pochi e circa un peruviano su 20 (in totale oltre un milione) fu costretto ad emigrare. Insomma, in soli 5 anni Garcia aveva ridotto il Perù come il Venezuela di oggi, anzi, peggio, considerando il terrorismo del Mrta e, soprattutto, di Sendero Luminoso, che secondo i dati ufficiali fece da 31mila a 37mila morti (ma molti ritengono quasi il doppio), raggiungendo il suo apice proprio allora.
La “mission impossible” di tirare il paese fuori dall’abisso toccò a quell’Alberto Fujimori che Sapelli considera un dittatore e addirittura l’ispiratore di tutto il populismo moderno a livello mondiale, Chavez compreso (un’idea talmente assurda che non è mai passata per la testa neanche ai suoi più accaniti avversari).
La realtà è che Fujimori, eletto nel 1990 e rieletto nel 1995 in modo assolutamente regolare e con margini enormi (60% e 64%), usò il pugno di ferro perché quella di Sendero era una vera e propria guerra di sterminio, le cui vittime erano anzitutto i contadini e gli indigeni che i terroristi sostenevano di voler difendere, come mi ha raccontato, fra gli altri, il prof. Chineri della università amazzonica Ucss-Nopoki (della cui amicizia mi onoro), che diresse per anni la resistenza del popolo Matsigenka contro i suoi presunti “liberatori”.
Inoltre Fujimori salvò il paese dalla bancarotta imminente, eliminando ogni forma di statalismo e assistenzialismo, dopo che nel 1993 aveva fatto approvare una nuova Costituzione che è ancor oggi l’asse portante delle fragili istituzioni del paese e che incorpora, tra l’altro, il principio di sussidiarietà tanto caro (giustamente) a Sapelli, per giunta in una forma molto “contundente”, come dicono da queste parti (l’Italia, per la cronaca, lo ha inserito in Costituzione solo nel 2001 e in forma assai più blanda, cosicché i nostri Governi possono altamente fregarsene, come regolarmente accade, senza subire conseguenza alcuna).
Se Fujimori avesse lasciato nel 2000, come avrebbe dovuto, sono certo che oggi sarebbe rispettato e onorato come un padre della patria. Invece, purtroppo, volle a tutti i costi essere rieletto per la terza volta, forzando l’interpretazione della sua stessa Costituzione e commettendo brogli e illegalità di vario tipo, per cui ben presto dovette lasciare il potere.
A succedergli non fu però Garcia, nonostante avesse appena pronunciato (secondo Sapelli) il “Mejor discurso del mundo”, bensì Toledo, che lo sconfisse nettamente nel ballottaggio del 2001 e iniziò l’opera di ricostruzione, grazie soprattutto a Luis Solari De La Fuente (un altro protagonista della storia peruviana della cui amicizia mi onoro, avendolo conosciuto mentre era decano nella Ucss di Lima, dove insegno come visiting professor), un cattolico serio, ma soprattutto uno che prendeva sul serio la dottrina sociale cattolica (le due cose spesso non coincidono).
In soli due anni, prima come ministro della Sanità e poi come primo ministro, Solari fece approvare una grande quantità di riforme ispirate al principio di sussidiarietà che cambiarono letteralmente volto al paese, anche se i presidenti successivi (Garcia compreso) un poco alla volta le hanno ridimensionate, a volte intenzionalmente (soprattutto Humala, lui sì davvero socialista), ma più spesso senza neanche accorgersene e anzi credendo sinceramente di portarle avanti, ma senza averle realmente capite. È anche per questo (benché non solo per questo) che negli ultimi anni la crescita del paese ha nettamente rallentato.
Solo nel 2006 Garcia riuscì finalmente a vincere. Ma per farlo dovette prima riconoscere tutti gli errori del passato, che in effetti non ripeté più, sicché il suo secondo governo fu davvero un successo (inflazione sotto controllo, un debito pubblico tra i più bassi al mondo, boom degli investimenti privati, crescita media del 7,2% annuo, spettacolare riduzione della povertà dal 50% al 28% e abbattimento della piaga endemica dell’anemia infantile), ma sarebbe difficile attribuire ciò a un’ideologia precisa. In ogni caso, se proprio si volesse, si dovrebbe piuttosto parlare di “liberalismo moderato” o (come usa qui) di “economia sociale di mercato”, non certo di socialismo.
Ma la verità è che Garcia navigò essenzialmente a vista, sfruttando l’ottima situazione economica lasciatagli in eredità da Fujimori e Toledo nonché la congiuntura internazionale favorevole (il Perù è di fatto la miniera della Cina, allora in pieno boom industriale), basandosi soprattutto sul buon senso, su una enorme capacità di lavoro (dettata da una altrettanto enorme volontà di rivincita) e su una squadra ministeriale di buon livello, ma in grande maggioranza non aprista. Non per nulla, l’Apra ormai da tempo si identificava di fatto con la persona stessa di Alan Garcia: e ora che lui è morto, nessuno sa più dire cosa sia.
Ma… come è possibile che un paese arrivi ad arrestare tutti coloro che l’hanno governato negli ultimi 33 anni, compresi gli artefici della sua rinascita? E cosa c’entra tutto questo con noi? Cercherò di spiegarlo nel prossimo articolo.
(1 – continua)