“No news is good news”. Talvolta funziona così, ma, finanziariamente parlando (e operando), il precedente accorgimento non sempre rappresenta la realtà, soprattutto ai giorni nostri, dove, mediante un semplice e breve messaggio, ad esempio un tweet, il rischio è molto più elevato: si può invertire – e sovvertire – l’ordine di molteplici scenari in gioco: politici, economici, finanziari, tutto. E tutto questo può accadere, accade ed è accaduto nel corso di questi ultimi giorni. Un tweet. Proprio attraverso un tweet: un primo e unico semplice cinguettio che, nonostante la sua minuta fattezza, ha comunque attirato l’attenzione di uno stormo ben agguerrito che, una volta mutata la precedente direzione intrapresa, ha voluto sottolineare la propria velocità di reazione.
Non si tratta di un’insieme armonioso di anime leggiadre al pari del celebre gabbiano Jonathan Livingston raccontato da Richard Bach, bensì, quanto accaduto, è invece concretamente rappresentato dalle numerose, molteplici e immateriali operazioni finanziarie caratterizzate dal loro colore rosso e dalla scritta “sell”. Vendere, liquidare le proprie posizioni, il più velocemente possibile. E i principali mercati azionari internazionali hanno subito accusato il colpo: un duro colpo. Nell’arco di poco più di 72 ore, l’intero panorama finanziario, da oriente a occidente è stato coinvolto. E proprio a queste due diverse ed opposte latitudini sono da attribuire i principali fattori del famigerato “librare in cielo”.
La cronaca degli eventi è doverosa perché al tempo stesso rappresenta quanto sia delicato il terreno e la posta in gioco: se in passato il mondo finanziario era soggetto a più variabili (per lo più note), oggi più che mai la dinamica dei prezzi può essere ingenerosamente influenzata da ulteriori e molteplici incognite: una di queste è verosimilmente rappresentata dal contenuto racchiuso in un semplice e apparentemente innocuo e soave cinguettio. Un tweet.
Nelle ore serali di venerdì, viene diffuso l’annuncio del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, attraverso il quale si apprende come le trattative tra la gli Usa e la Cina stiano «andando bene» e come – lo stesso leader statunitense – si soffermi sulla formalizzazione del tanto atteso accordo: «Ci stiamo avvicinando a un accordo storico e monumentale». Tutto questo durante l’accoglienza a Washington Dc del primo ministro slovacco, Peter Pellegrini.
Nelle successive 24 ore, l’inquilino della Casa Bianca, mediante il suo privilegiato strumento di comunicazione, twitta indicando come il negoziato in essere stia proseguendo «troppo lentamente» e denunciando inoltre come la stessa Cina stia tentando di rinegoziarlo. Per tale motivo, il Presidente americano si vede costretto a reagire prontamente e pertanto pubblica la propria sentenza con un immediato annuncio: portare le attuali tariffe dal 10% al nuovo ammontare pari al 25% su 200 miliardi di dollari di beni cinesi importati.
I mercati finanziari reagiscono con i loro consueti modi in tale inaspettati situazioni: flessioni generalizzate sull’equity e significativi rialzi sulla componente bond. In due giorni di contrattazioni si registrano perdite di oltre due punti percentuali sulla maggior parte delle piazze azionarie internazionali con picchi di oltre cinque punti percentuali su quelle riconducibili al contesto cinese.
Nelle ore successive viene affermato – da parte statunitense – come la Cina si sia “tirata indietro” rispetto ai precedenti accordi intercorsi attraverso un «grande cambiamento nella direzione dei negoziati». Alla vigilia dell’undicesimo round di consultazioni, le parti che condivideranno lo stesso tavolo appaiono lontane.
Nonostante la crescente escalation degli eventi (sia di natura comunicativa che finanziaria), Pechino manifesta, e palesa, il proprio pensiero in modo completamente opposto: in un editoriale pubblicato su Global Times (sito in lingua inglese che di fatto è espressione del Partito Comunista) si apprende: «Quel che conta di più ora per la Cina è la calma. La Cina vuole un accordo anche se è allo stesso tempo preparata ad altri potenziali esiti, incluso uno stop temporaneo alle trattative», inoltre «è certo che l’aspettativa della società cinese per un accordo da raggiungere in fretta non è tanto alta come lo è nella società americana. Anche se i negoziati falliscono, l’impatto sulla Cina sarà sotto controlloÀ. Infine si legge come «anche se i negoziati saltano e Washington comprensibilmente alza i dazi, non significa che la porta delle trattative sia chiusa. L’atteggiamento degli Usa semplicemente rivela che Washington è ansiosa di raggiungere presto un’intesa. In questo momento la Cina deve mantenere la calma».
Nel corso delle ultime ore si rincara la dose. Ancora lui, il Presidente Usa Trump. Altro comunicato, altro tweet, ma la forma è meno diretta e potenzialmente “fraintendibile” o “interpretabile”: «Indovinate, non succederà! La Cina ci ha appena informato che (i membri della delegazione capitanata dal vice premier Liu He) stanno arrivando negli Usa per fare un accordo. Vedremo, ma sono molto contento con gli oltre 100 miliardi di dollari l’anno di dazi che stanno riempiendo le casse statunitensi.. .positivo per gli Usa, non così tanto per la Cina!». Il messaggio non è chiaro e il significato attribuibile può essere plurimo.
Approcci diversi, modalità di comunicazione diverse, risposte dei mercati altrettanto varie e caratterizzate da uno stato di momentanea attesa. Tutto questo durerà ancora per poco ovvero fino alle ore 6 italiane di venerdì, data in cui – salvo diversa intenzione Usa – le nuove sanzioni saranno applicate.
Ancora poco tempo, poche ore, al pari di un batter d’ali, ma – come sempre – accompagnato dall’immancabile tweet.