In un momento di grande incertezza generale, parlare, come abbiamo fatto di recente, di crisi dello Stato sociale potrebbe apparire come una preoccupazione, anche legittima, ma parziale. In realtà, quando si attaccano i corpi intermedi, cioè quando “uomini soli al comando” si prendono la scena e si rivolgono direttamente all’individuo isolato, gettando discredito sui legami sociali, si mette in crisi anche la capacità produttiva del Paese.
Solo un pensiero economico molto approssimativo e schematico può far pensare, ad esempio, che si riesca a risanare un’impresa come Alitalia provando a trattare continuamente con un partner diverso, senza avere alcuna strategia industriale. La stessa approssimazione si nota quando si pensa che il Pil possa riprendersi solo elargendo aiuti di Stato a persone sfiduciate, abbandonate a se stesse e che in questo modo si dovrebbe incentivare i consumi del Paese.
Oppure, solo una fiducia irrazionale nel neoliberismo uscito con le ossa rotte dalla crisi finanziaria del 2008 può illudere che imprese pensate con l’obiettivo di creare innanzitutto valore per gli azionisti, se lasciate operare senza altri compiti, possano portare al benessere collettivo. È contraddittorio, quasi stridente, in questo senso, che al Parlamento europeo si voti in favore di multinazionali del web che evadono il fisco.
Fare politica parlando esclusivamente alla “pancia delle persone”, usando di volta in volta il tema che più scatena l’emotività delle persone per ribadire un messaggio “io, solo io, posso rispondere al tuo bisogno” non porterà a nulla di buono.
Parlare di difesa dei corpi intermedi vuol dire parlare di uno sviluppo economico che nasce dal dialogo continuo tra chi governa e soggetti quali: associazioni di imprese, sindacati, consumatori, associazioni di stampo ideale, organismi di rappresentanza economica di tipo pubblico, come le Camere di commercio, esperti e opinione pubblica. Si chiama politica industriale la grande assente della Seconda Repubblica, escluso qualche intervento come il provvedimento “Industria 4.0”.
Fare politica industriale è un modo di governare che costringe a fare scelte tenendo conto dell’apporto di tutti, senza proclami roboanti, ma nel quotidiano lavoro di tessitura sociale che, passo dopo passo, fa il bene comune. Non si tratta di tornare alla politica della concertazione in cui nessuno si assumeva la responsabilità di decidere, ma, in un’ottica di sussidiarietà orizzontale, vuol dire ascoltare, tenere conto, imparare per poi operare senza presunzioni e sparate roboanti.
E non basta: l’isteria culturale che proclamava la necessità di governare presto, pulito, efficiente ha piano piano quasi quasi esautorato il Parlamento. I leader hanno teorizzato che la discussione in sede legislativa era diventata superflua, quasi una perdita di tempo. Hanno così prima sostituito gli eletti emersi dalle urne con dei nominati dai partiti; quindi hanno ridotto al minimo le proposte parlamentari che non fossero una mera ratifica di decisioni governative. Oggi teorizzano addirittura la fine del Parlamento. Cosa c’entra tutto questo con la politica industriale?
Pensare che il governo dell’economia si faccia solo con il Def o la finanziaria vuol dire non conoscere cosa sia e come si sviluppa un sistema economico democratico. Gran parte delle decisioni politiche che hanno permesso all’Italia di divenire uno dei primi paesi sviluppati del mondo è avvenuto nel duro lavoro delle Commissioni parlamentari.
Persone esperte e preparate discutevano intorno allo sviluppo delle macchine utensili, dell’industria del legno di arredamento, del settore cooperativo, delle infrastrutture, dell’ammodernamento del settore agricolo, varando provvedimenti apparentemente di peso generale limitato, ma fondamentali per dare vigore a settori in crescita rilanciandone altri in crisi.
Come si può pensare, ad esempio, di costruire uno sviluppo sostenibile se la lotta contro i mutamenti climatici negati solo dai don Ferrante moderni (che non riconoscendo il morbo alla fine né morì) non avviene anche con dibattiti seri e motivati di politici esperti, ma è lasciato a qualche ministro calato direttamente da un altro pianeta.
E non basta ancora: esistono in Italia organismi pubblici fonti di informazioni fondamentali come l’Istat, l’ufficio studi della Banca d’Italia, l’Inps che la disintermediazione getta nel discredito con il tentativo di “addomesticarli” a favore dei propri interessi. E infine, perché non ripensare in chiave tedesca, in termini di sussidiarietà verticale, l’articolazione tra organismi centrali ed enti territoriali quali regioni, province, comuni?
In Germania, una politica economica e industriale, ordinata e dialogata, è una delle chiavi del funzionamento delle competenze tra Land e governo centrale, che assicura rapidità di decisione e, nello stesso tempo, informazione ed efficienza nelle scelte politiche. Il populismo non è una novità. I suoi tentativi di governo sono già falliti nel corso della storia. Salviamo i corpi intermedi per salvare la nostra economia e la nostra democrazia.