Ormai il termine “soft skills” è stato sdoganato, viene anzi sbandierato da qualsiasi HR Manager e azienda per dimostrare che, durante la selezione del personale, l’uomo è sempre al centro. Ovviamente sono il primo a essere contento di ciò, dato che mi occupo proprio di competenze trasversali. Vorrei, tuttavia, fornire uno dei miei, ormai noti, suggerimenti non richiesti: occorre comprendere quando le soft skills fanno la differenza e… quando bisogna andare oltre a queste.
Mi trovo infatti contrario a chi realizza “campagne acquisti” di giovani talenti puntando esclusivamente sulla ricerca di soft skills. Quando si entra nel mondo del lavoro, si viene in primo luogo chiamati per un’unica ragione: risolvere problemi. E spesso questi sono di natura organizzativa, amministrativa e non certo strategica. Per questo ai giovani suggerisco di formarsi il più possibile sulle hard skills, soprattutto quelle digitali: queste sono molto richieste e non trovano ancora una risposta soddisfacente dal mercato.
Una volta entrati in azienda, inizia poi il classico Cursus Honorum, durante il quale vengono affidate sempre più responsabilità, di tipo decisionale, di budget, ma soprattutto di coordinamento dei propri collaboratori. È in questo momento che le soft skills fanno la differenza. Infatti, per quanto un tecnico possa essere bravo e in gamba nello svolgere il proprio mestiere, non potrebbe mai dedicarsi a una carriera da manager senza le capacità per creare un team affiatato. E, anzi, nel momento in cui gli dovesse essere affidata una nuova responsabilità manageriale, vedremmo abbassarsi la produttività del team alle sue dipendenze, in quanto lui stesso sarebbe incapace di guidarlo. Ecco perché sono soprattutto i profili senior quelli che dovrebbero investire sulle soft skills, quali la capacità di problem solving e la negoziazione, ad esempio. Queste competenze, infatti, li rendono capaci di gestire le relazioni nelle situazioni più complesse. È da tenere presente che questo tipo di skill non si acquisiscono con l’esperienza, poiché quest’ultima non contiene (quasi) mai un metodo.
Infine, c’è un ultimo passaggio, quello che io definisco delle leve decisioni e delle mappe mentali. Per farmi comprendere meglio, racconto di un caso che sto seguendo in questo periodo: una nota azienda straniera, la cui proprietà è familiare, sta selezionando un suo nuovo Ceo. I candidati selezionati dai vari head hunter sono tutti preparatissimi, sia a livello di hard skills che di soft skills, in quanto ricchi di esperienza pregressa nel guidare multinazionali o grandi aziende. Io intervengo, affiancando la proprietà, per scoprire la profonda visione del mondo dei candidati e per confrontarla con quella dei decisori finali. In questo caso vengono vagliate le leve che il candidato usa, spesso in maniera inconscia, quando decide, e, qualora queste non dovessero corrispondere a quelle della proprietà, risulterà difficile che il candidato venga scelto come la persona giusta.
Anche la stessa capacità di identificare le leve decisionali e le mappe mentali è una competenza che si può acquisire, è, infatti, il termine con cui indico le “soft skills neuroscientifiche”, ed è il tema su cui le prime linee dovrebbero investire per guadagnare maggiormente. Conoscendo come è costituita una nave (hard skills), e come tenere assieme la ciurma (soft skills), comprenderebbero cosa prova il capitano quando si dirige verso l’orizzonte.