Siamo già nel pieno di una campagna elettorale per uno voto europeo che sarà decisivo, per molte ragioni. Per la prima volta, un gruppo antieuropeo e nazionalista, come quello guidato da Salvini e Le Pen, può diventare la quarta forza politica. Il risultato di popolari e socialisti, indeboliti, sarà decisivo per far sì che il tedesco Manfred Weber (Ppe) o l’olandese Frans Timmermans (Pse) possano aspirare a guidare la Commissione europea (il vero organo legislativo europeo). Se quelle che finora sono state le due grandi famiglie politiche europee non andranno bene, la presidenza della Commissione e altre posizioni rilevanti non terranno conto della composizione del Parlamento.
Il risultato delle elezioni sarà decisivo anche per l’elaborazione del bilancio 2021-2027. Se i partiti chiaramente europeisti perderanno forza sarà più difficile esercitare una pressione effettiva sulla Commissione e sui governi nazionali per aumentare la spesa e modernizzarne la distribuzione delle poste. E con meno voti a favore di queste formazioni sarà anche più difficile completare la riforma dell’euro. Anche se non dipende dal Parlamento europeo, è inevitabile che un voto per meno Europa implica una difficoltà maggiore per approvare un bilancio che agisce come stabilizzatore davanti alle recessioni, per trasformare il Meccanismo europeo di stabilità in un Fondo monetario europeo e per completare l’Unione bancaria.
Ma queste elezioni non sono decisive soltanto perché il risultato può portare a un freno nella costruzione dell’Europa, ma anche per lo “stato d’animo” con cui molti elettori voteranno o non andranno a votare e perché il mondo è cambiato sostanzialmente negli ultimi cinque anni. La vittoria di Trump suppone, in larga misura, l’aver perso il sostegno del vincolo atlantico. Il presidente degli Stati Uniti riceve Orban, il presidente antieuropeo dell’Ungheria, mentre la scorsa settimana il Segretario di Stato Pompeo ha annullato un incontro con la Merkel. La Cina non nasconde più la sua volontà imperialista e i suoi piani per conquistare settori strategici e la Russia è determinata a destabilizzare tutto ciò che può.
In questo contesto, come sottolinea Ivan Krastev (autore di “After Europe”), gli europei sono dominati dalla nostalgia. Un’Europa stanca perché ha negato la sua origine (papa Francesco) è ora assalita dalla paura. Siamo di fronte a una nostalgia imprecisa che non sa definire qual è stata la nostra età dell’oro (forse la ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale). E di fronte a una paura non solo per un futuro peggiore o per la crescente disuguaglianza (Habermas). Piuttosto si tratta del timore di non sapere bene chi siamo. La maggiore o minore fiducia nell’Europa non dipende solo da un deficit democratico (Weiler), ma da un’insicurezza sulla nostra identità.
Di fronte a questa crisi di identità ci sono due tentazioni che sembrano soluzioni rapide: prendere per fisse le posizioni degli elettori anti-europei e pro-europei per lanciarsi in battaglia e rivendicare un’europeizzazione “dall’alto”. Krastev sottolinea in modo suggestivo che la polarizzazione assoluta tra sovranisti nazionalisti ed europeisti ha qualcosa di illusorio. L’editorialista del New York Times sottolinea che questo confronto non si verifica nemmeno in Ungheria, forse c’è in Polonia. Sarebbe necessario fuggire da uno scontro sterile. Non sono i sovranisti o gli euroscettici che possono affondare l’Europa, ma l’Europa stessa se non propone nuove soluzioni. Krastev sostiene che non bisogna difendere l’Unione europea, ma reinventarla. Una proposta interessante che suggerisce una nuova sintesi, l’ennesima ricostruzione.
Così come l’Europa che emergerà dalle nuove elezioni non deve essere l’Europa vittoriosa sul o vinta dal sovranismo, l’identità europea non si può recuperare dall’alto o per il semplice e improbabile salvataggio delle sue radici. Questa è la debolezza di Macron o di tutti coloro che ricordano l’importanza di una tradizione dove i valori del diritto romano, del cristianesimo o dell’illuminismo erano un faro.
La politica culturale europea è stata un chiaro sintomo dell’impossibilità di recuperare un’identità dall’alto. L’Europa è nata senza politiche culturali. E quando si realizza la riforma di Maastricht del 1992, con le successive modifiche che danno origine al Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, quando finalmente si riconoscono le competenze culturali non si fa un riferimento all’identità culturale europea. Si parla solo delle culture degli stati membri e di un patrimonio comune. Più interessanti per modellare l’identità dell’Europa sono state le esperienze come il programma Erasmus, che è servito e serve per acquisire dal basso, dalle relazioni tra persone diverse, un’esperienza concreta di chi siamo. Il problema dell’identità e della mancanza di significato non si può risolvere appellandosi a un’eredità storica, alle radici dell’Europa, a un passato glorioso: la tradizione non resta in piedi.
Essere europeo in questo momento è iniziare dal principio, per un riconoscimento nell’esperienza del bene pratico che implica lo stare insieme. La verità di ciò che significa essere europei sarà sempre relazionale, arriverà attraverso l’esperienza.