Siamo immersi in un tornante accelerato della storia che vede il crollo dell’ordine mondiale costruito dopo l’89. Europa compresa. La svolta, rapidissima, avviene nel biennio 2016-2018: il referendum italiano, con l’imporsi di forze politiche alternative all’establishment italiano ed europeo; la Brexit, la vittoria di Trump negli Usa, l’affermazione di Lega ed M5s alle elezioni politiche del 2018 e la progressiva messa in discussione dell’ordine europeo da parte di formazioni politiche votate alla difesa degli interessi nazionali contro le disparità e l’ideologia di una Europa tecnocratica fondata sul mercato. Non si capiscono queste elezioni europee se non inquadrandole in questo contesto, dice Antonio Pilati, saggista, già direttore dell’Istituto di economia dei media della Fondazione Rosselli, ex membro del Cda Rai e poi componente dell’Agcom.
Salvini ha detto che le europee saranno “un referendum”. Di Maio ha evocato il brutto precedente di Renzi. Il Corriere gli è andato dietro, dicendo che nell’uno contro tutti, i “tutti” normalmente vincono. Secondo lei che cosa ci attende?
Non credo che le elezioni saranno un referendum sul governo, piuttosto saranno uno strumento con cui i cittadini manifesteranno i loro sentimenti sia sul governo dell’Italia, sia sul modo in cui l’integrazione europea ha modificato la nostra vita. A quel che appare la percezione non è delle migliori.
Cosa c’è in gioco?
Gli elettori si pronunceranno su due visioni alternative: una sostiene che dobbiamo fare come abbiamo fatto fino a marzo 2018, magari con qualche aggiustamento. L’altra dice che quel lungo esperimento non ha dato i risultati sperati e per questo dobbiamo provare qualcos’altro.
Come siamo arrivati a questa scelta?
Dal 2011 fino alle elezioni del 2018 c’è stato una forte continuità, il “governo dei competenti”, da Letta a Gentiloni. Sono i governi che si sono formati sotto l’egida di Napolitano e con il beneplacito della Ue. Ma oggi il Pil è sotto i livelli del 2008, il debito è cresciuto e l’economia è ancora in sofferenza. Il reddito di molti italiani è diminuito e i governi dei competenti non li hanno soddisfatti.
E gli italiani hanno voluto cambiare. Siamo al 4 marzo 2018.
Due forze fuori dal mainstream hanno preso il 50% dei voti e hanno fatto il governo. Nonostante tutti i ritardi e le liti, il loro consenso non è diminuito, semmai è cresciuto, anche se si sono distribuiti diversamente i pesi interni. L’insoddisfazione tuttavia permane e c’è paura per le prospettive. Le famiglie sono convinte che i figli avranno meno opportunità.
Torniamo alle due visioni alternative. La prima è quella prettamente europeista.
È la visione continuista. In Francia è rappresentata da Macron, mentre l’alternativa è impersonata, sia pure con accenti ideologici molto diversi, da Mélenchon e Le Pen. In Germania Spd e Cdu hanno perso molti voti e in Gran Bretagna il probabile successo di Farage dimostra una grande insofferenza.
Nel suo recente saggio La catastrofe delle élite, lei dice che nel triennio 2016-2018 sono saltati gli schemi politici consolidati dopo l’89. Gli elettori sono realmente consapevoli di questa situazione?
L’Europa è in una fase critica, difficile, che gli elettori avvertono più o meno chiaramente. Come avvertono che il quadro politico sta mutando rapidamente.
In che modo, secondo lei?
Il mosaico è complesso. Lo scontro tra Usa e Cina non è passeggero, ma di lungo periodo, è una partita tra due civiltà diverse. L’Europa ha speso parole di solidarietà atlantica ma non ha messo soldi per la difesa Nato; ha fatto grandi chiacchiere sui diritti umani e affari con la Cina, Germania in testa, ma la Cina non è proprio la patria dei diritti umani. Se andiamo appena un po’ più indietro, cosa dovremmo dire del modo in cui Francia e Germania hanno trattato la Grecia? Ecco, questo gioco un po’ ipocrita e un po’ furbesco coglie l’Europa del tutto impreparata nel momento in cui gli Usa richiedono un allineamento nel duro conflitto con la Cina.
In Italia la polarizzazione elettorale tra i due alleati di governo è al culmine. I media mainstream sembrano prediligere M5s e fanno fronte comune contro la Lega salviniana. Che cosa c’è sotto la “pelle” di questa contrapposizione?
Il mondo culturale nel suo complesso ha condiviso la scommessa sull’Europa e sulla sviluppo positivo della globalizzazione secondo il modello Clinton-Blair: autonomia della finanza, rapporto forte con la Cina come produttore di merci a basso costo e acquirente del debito Usa, Europa come fortezza in cui splendono i diritti. Ma questo mondo, dopo la crisi del 2008, non brilla più, perché non ha mantenuto le promesse. Tuttavia c’è un establishment culturale – giornali, intellettuali, accademia, imprenditori – che trovandosi a suo agio nel mondo citato, difende le forze politiche che ne sono espressione. Chi non sta bene sono gli operai del Michigan e della Pennsylvania che votano Trump, o i lavoratori della Francia settentrionale o i greci costretti a enormi sacrifici.
Una parola che sembra andare di pari passo con la crisi delle élites europee è “sovranismo”.
È un’etichetta squalificante che viene usata per mettere in angolo chi fa un discorso politico che non piace. Non è l’unica. C’è “populismo”, un termine nato in Sudamerica, dove però i descamisados peronisti avevano il supporto di potenti sindacati.
La globalizzazione è un male?
No, affatto. Grazie ad essa un centinaio di milioni di persone in Asia sono uscite dalla povertà e diventate classe media. Però negli Usa e in Europa grazie alla globalizzazione economica e ai suoi risvolti politico-istituzionali, milioni di persone sono state emarginate e hanno visto precipitare il loro tenore di vita. Questo ha portato effetti politici che non si possono arrestare con le parole.
Come si collocano le migrazioni in questo contesto?
Le migrazioni sono il conto, che arriva a distanza di 60 anni, di una decolonizzazione che in Africa è stata fatta nel peggiore dei modi. I migranti vengono da paesi ex colonie francesi o britanniche. Gli inglesi se ne sono andati disinteressandosi di quel che c’era, i francesi sono rimasti, venendo a patti con le classi dirigenti locali, che si sono arricchite garantendo vantaggi alla vecchia potenza coloniale. Il resto lo ha fatto la globalizzazione tecnologica. I cellulari e internet sono un fattore di democratizzazione delle conoscenze; chi non partirebbe sapendo che altrove ci sono condizioni di vita molto migliori? Ma gli emigranti non possono traslocare tutti in Italia o in Spagna.
Qual è la sua previsione per queste elezioni europee?
Io credo che la crisi dell’Europa sia troppo profonda e di troppo lungo periodo perché un’elezione possa dire una parola definitiva. Il voto di fine maggio sarà un’altra tappa della lunga crisi europea, come dimostrano tanti eventi, dal referendum italiano al travaglio della Brexit, dai malumori dei paesi di Visegrad ai gilet gialli.
E in Italia?
Credo che il nostro paese sia destinato a soffrire parecchio. La sua grande fragilità economica e politica lo espone più degli altri ai venti della crisi.
(Federico Ferraù)