L’economia deve tornare a essere pensata come scienza umana. Non sembri un paradosso. Da almeno un ventennio si è cominciato a parlare di sostenibilità: traduzione largamente condivisa, de-ideologizzata di bene comune. Con questo concetto, infatti, si vuole affermare che, in una società democratica, l’economia non deve solo funzionare, ma anche garantire equità e giustizia sociale, rispetto delle generazioni future e dell’ambiente.
Sono passati quasi sessant’anni dall’affermazione di uno dei capisaldi del pensiero liberista di Milton Friedman: “L’unico compito di un’impresa è quello di fare buoni affari”. Una visione che tiene conto solamente delle esigenze del mercato e ignora tutte le implicazioni sociali, economiche, umane in generale, che l’attività di un’azienda comporta nel territorio in cui opera.
Il perdurare della crisi scoppiata nel 2008 sta mettendo definitivamente in luce il limite di questa visione e la malattia sistemica che ha innescato, alimentata dal comparto creditizio e dalla cosiddetta “felicità degli azionisti”, per cui i meccanismi economici non si parlano con quelli politici, quelli finanziari non si accordano più con quelli economici e le dinamiche sociali sono addirittura rallentate, facendo mancare il loro vigore a tutto il sistema.
Che cosa significa, in uno scenario così complicato, rimettere l’uomo al centro? Come andare oltre le dichiarazioni di principio? Certamente occorre riconsiderare il valore del lavoro, la sua dignità, recuperando e rinnovando anche la funzione che svolgono i sindacati. Uno sviluppo senza occupazione sarebbe un attentato alla dignità delle persone. “I soldi non si fanno con i soldi”, ma con un lavoro che deve essere dignitoso, come ricorda continuamente papa Francesco.
Quello di cui si sta parlando è uno dei punti centrali della questione economica. È un tema che spesso viene stranamente trascurato. E si tratta della natura e della funzione dell’impresa. Lo ha ricordato di recente Emanuele Cusa, professore di diritto commerciale all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, parlando dei limiti della “monocultura capitalistica” e dei vantaggi che un “polimorfismo imprenditoriale” potrebbe portare. Il modello di impresa che si è affermato negli ultimi trent’anni non è in grado di perseguire lo sviluppo economico in una democrazia. Eppure questo modello rimane dominante, pur non essendo l’unico previsto dall’ordinamento, che contempla anche forme aziendali che non impongono la ricerca del massimo profitto come obiettivo primario, ma un giusto guadagno unito alla piena occupazione, allo sviluppo della comunità e del territorio e alla tutela dell’ambiente in cui opera l’impresa.
Elencando: esistono le imprese sociali, le cooperative sociali, le società di mutuo soccorso, le start up innovative a vocazione sociale, le cooperative di comunità, gli operatori bancari di finanza etica e sostenibile, tutte realtà che potrebbero essere favorite dalle istituzioni e potrebbero portare grandi vantaggi alla collettività, perché si muovono soprattutto per massimizzare l’occupazione e non il profitto, in quanto spinti anche da un’ideale di coesione e di sensibilità sociale.
Sarebbe però sbagliato pensare che solo questo tipo di imprese sono la garanzia per attuare lo sviluppo economico in senso umanistico. Ci sono imprese che fanno profitti e che ugualmente si impegnano a distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia e soprattutto occupazione sempre più qualificata.
L’esempio viene da chi ha inventato il personal computer, il famoso “modello 101”, Adriano Olivetti, che operava mediante società per azioni, ma scriveva che la fabbrica non doveva solo pensare ai profitti, ma adottare pratiche quali: attrarre e conservare lavoratori qualificati, effettuare il reclutamento della manodopera in forme non discriminatorie, investire nell’educazione e nella formazione permanente dei dipendenti, introdurre criteri stringenti in tema di salute e sicurezza.
Come si è arrivati a teorizzare un’impresa che deve preoccuparsi solo di fare profitti? Quello che è successo è che la finanza ha probabilmente trionfato sull’economia reale.
C’è un esempio attuale comunque che viene da Bologna e che ribadisce la possibilità di fare scelte in controtendenza rispetto all’ideologia economica dominante. Si tratta della Faac, uno dei leader mondiali dell’automazione meccanica, che è stata rilevata dall’Arcidiocesi e nel giro di due anni ha innanzitutto aumentato i suoi profitti ma nello stesso tempo ha destinato ogni anno 5 milioni di euro per attività quali: affitti, utenze e sanità per famiglie bisognose, sostegno per ragazzi disabili, doposcuola e progetti per la dispersione scolastica, borse di studio, nascita di start up, progetti statali. In tre anni sono state aiutate ben 1500 persone e finanziati 15 enti.
Con questa acquisizione non si è solo salvata solamente una produzione importante, ma si è arricchito un territorio e un’intera comunità.
Sono passati quasi sessant’anni dall’affermazione di uno dei capisaldi del pensiero liberista di Milton Friedman: “L’unico compito di un’impresa è quello di fare buoni affari”. Una visione che tiene conto solamente delle esigenze del mercato e ignora tutte le implicazioni sociali, economiche, umane in generale, che l’attività di un’azienda comporta nel territorio in cui opera.
Il perdurare della crisi scoppiata nel 2008 sta mettendo definitivamente in luce il limite di questa visione e la malattia sistemica che ha innescato, alimentata dal comparto creditizio e dalla cosiddetta “felicità degli azionisti”, per cui i meccanismi economici non si parlano con quelli politici, quelli finanziari non si accordano più con quelli economici e le dinamiche sociali sono addirittura rallentate, facendo mancare il loro vigore a tutto il sistema.
Che cosa significa, in uno scenario così complicato, rimettere l’uomo al centro? Come andare oltre le dichiarazioni di principio? Certamente occorre riconsiderare il valore del lavoro, la sua dignità, recuperando e rinnovando anche la funzione che svolgono i sindacati. Uno sviluppo senza occupazione sarebbe un attentato alla dignità delle persone. “I soldi non si fanno con i soldi”, ma con un lavoro che deve essere dignitoso, come ricorda continuamente papa Francesco.
Quello di cui si sta parlando è uno dei punti centrali della questione economica. È un tema che spesso viene stranamente trascurato. E si tratta della natura e della funzione dell’impresa. Lo ha ricordato di recente Emanuele Cusa, professore di diritto commerciale all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, parlando dei limiti della “monocultura capitalistica” e dei vantaggi che un “polimorfismo imprenditoriale” potrebbe portare. Il modello di impresa che si è affermato negli ultimi trent’anni non è in grado di perseguire lo sviluppo economico in una democrazia. Eppure questo modello rimane dominante, pur non essendo l’unico previsto dall’ordinamento, che contempla anche forme aziendali che non impongono la ricerca del massimo profitto come obiettivo primario, ma un giusto guadagno unito alla piena occupazione, allo sviluppo della comunità e del territorio e alla tutela dell’ambiente in cui opera l’impresa.
Elencando: esistono le imprese sociali, le cooperative sociali, le società di mutuo soccorso, le start up innovative a vocazione sociale, le cooperative di comunità, gli operatori bancari di finanza etica e sostenibile, tutte realtà che potrebbero essere favorite dalle istituzioni e potrebbero portare grandi vantaggi alla collettività, perché si muovono soprattutto per massimizzare l’occupazione e non il profitto, in quanto spinti anche da un’ideale di coesione e di sensibilità sociale.
Sarebbe però sbagliato pensare che solo questo tipo di imprese sono la garanzia per attuare lo sviluppo economico in senso umanistico. Ci sono imprese che fanno profitti e che ugualmente si impegnano a distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia e soprattutto occupazione sempre più qualificata.
L’esempio viene da chi ha inventato il personal computer, il famoso “modello 101”, Adriano Olivetti, che operava mediante società per azioni, ma scriveva che la fabbrica non doveva solo pensare ai profitti, ma adottare pratiche quali: attrarre e conservare lavoratori qualificati, effettuare il reclutamento della manodopera in forme non discriminatorie, investire nell’educazione e nella formazione permanente dei dipendenti, introdurre criteri stringenti in tema di salute e sicurezza.
Come si è arrivati a teorizzare un’impresa che deve preoccuparsi solo di fare profitti? Quello che è successo è che la finanza ha probabilmente trionfato sull’economia reale.
C’è un esempio attuale comunque che viene da Bologna e che ribadisce la possibilità di fare scelte in controtendenza rispetto all’ideologia economica dominante. Si tratta della Faac, uno dei leader mondiali dell’automazione meccanica, che è stata rilevata dall’Arcidiocesi e nel giro di due anni ha innanzitutto aumentato i suoi profitti ma nello stesso tempo ha destinato ogni anno 5 milioni di euro per attività quali: affitti, utenze e sanità per famiglie bisognose, sostegno per ragazzi disabili, doposcuola e progetti per la dispersione scolastica, borse di studio, nascita di start up, progetti statali. In tre anni sono state aiutate ben 1500 persone e finanziati 15 enti.
Con questa acquisizione non si è solo salvata solamente una produzione importante, ma si è arricchito un territorio e un’intera comunità.