L’approssimarsi della scadenza elettorale non poteva non rimettere al centro del dibattito pubblico il problema dell’Europa. Interessi materiali corposi, logiche di potere e nostalgie cariche di fascino in alcuni loro risvolti non secondari si mescolano tra loro nel condurre a interrogarsi sul senso che può ancora avere decidere di prendere parte al compito di forgiare l’impianto giuridico della cittadinanza e l’ossatura del governo generale della società nel momento storico attuale.
Un contributo prezioso in questo senso è stato offerto dal documento Una presenza al bisogno del mondo, diffuso nelle ultime settimane dal movimento di Comunione e liberazione. In diversi ambienti, il giudizio che vi è proposto non ha mancato di sollevare critiche e riserve, su cui vale la pena fermarsi a riflettere per tentare di comprendere meglio la posta in gioco.
Una delle obiezioni fondamentali, rilanciate nel mondo cattolico, rispolvera il sospetto dell’arretramento sul piano della “dottrina”. Saremmo di fronte all’ennesima rinuncia a intervenire sui contenuti: nel senso che ci si astiene dal richiamare progetti di società o valori primari su cui convergere per creare consenso in vista di una univoca scelta di campo. Restando sul vago, così si lamenta, si scivola nel primato attribuito all’esperienza da vivere intesa in modo generico, ideologicamente neutrale, come prospettiva valida per tutti senza nessun tipo di esclusione a priori. E poi dall’esperienza si dichiara di attendere i suggerimenti che potranno arrivare a orientare, solo di riflesso, scelte e proposte di cui lo strumento politico sarebbe in grado di farsi carico.
La denuncia dell’arretramento rinunciatario sorvola però su un punto decisivo, inesorabilmente sottovalutato: come si debba guardare alla realtà del presente in cui viviamo. In rapporto a questo, la presa di distanza critica dall’astrattezza della politica ideologica, ridotta a sforzo di realizzazione di una strategia che, attraverso l’uso del potere, risani e guarisca dall’alto i mali del mondo, deve essere ricollocata in una luce ben diversa. Quella che può sembrare la conferma deludente di una fuga dalla responsabilità e dal rischio si configura, piuttosto, come il frutto di una diversa e più avanzata presa di coscienza di ciò che è diventata l’Europa sotto i nostri occhi.
Non c’è lo svuotamento della dottrina, ma la chiamata al suo allargamento ragionevole, l’invito a una disponibilità seria e cordiale che costringe a lasciarsi interrogare fino in fondo dalle pieghe assunte dal destino della società di cui siamo parte. Il fatto che siamo ormai entrati da tempo in un “fase completamente nuova della storia” (è la presa d’atto da cui parte il documento di Cl) impone di rimodulare gli schemi del passato e di concepire in una fisionomia inedita il ruolo che attende ogni soggetto vivo desideroso di cimentarsi in un’opera di costruzione reale, a cominciare dalla comunità dei credenti che si riconoscono nella fede da cui la stessa civiltà dell’Europa ha tratto la sua linfa migliore.
Invece ci sono ancora forti resistenze ad accettare tutto lo spessore della crisi che ha logorato l’impalcatura di fondo della comune civiltà europea con il dispiegarsi della più avanzata modernizzazione. Ponendo al centro del cosmo sociale l’individuo autonomo e la dittatura dei suoi desideri, inglobati nella sfera dei diritti intangibili, non si è sbriciolato soltanto il tessuto della cristianità: è anche evaporato il quadro dei criteri etici più largamente condivisi che avevano accompagnato la vita delle nostre società, fino al prevalere della “liquidità” che ci ha sommerso.
Nel deserto dei valori comuni, ogni disegno ideologico che pretenda di restaurare le crepe dell’Occidente malato passando attraverso la semplice revisione dei principi di autorità, facendo leva sulla capacità rigeneratrice dello strumento politico applicato in modo vincolante alla galassia dell’esperienza umana, è destinato a rivelarsi utopico, ultimamente debole e velleitario. Per rivitalizzare un organismo anemico, in stato di grave declino patologico, non basta neanche la più magica ricetta. Si ritrova sterile il più raffinato protocollo medico disposto in modo coatto.
Occorre invece invertire la rotta, incidere sulla sostanza: occorre immettere nuovi elementi sani dentro il corpo sofferente del grande infermo. Ciò vuol dire oltrepassare la soglia di un progetto di cambiamento affidato al potere taumaturgico della legge e della forza di governo. Bisogna piegarsi all’umiltà di ripartire dal basso, entrando dentro il dinamismo di quello che fermenta alla base, nella trama diffusa della società. Da qui si riparte per rispondere in modo autentico “al bisogno del mondo”, cominciando subito a edificare, in mezzo alle macerie, i lineamenti di un vero bene comune, prima ancora che vengano messi a disposizione i piani generali e i mezzi operativi del governo complessivo della comunità umana. Se poi verranno anche questi, ci sarà un’opera già avviata da potenziare e da perfezionare.
I valori positivi di cui è portatore un soggetto attivo nella società per rispondere al bisogno umano, come deve essere in primo luogo la comunità dei credenti, rimandano a una piattaforma di beni che, in sé considerati, sono “irrinunciabili”. Ma non c’è più un unanimismo esplicito che spiani la strada al loro riconoscimento. I beni umani vanno riconquistati rendendoli credibili: si mostrano e attirano a sé attraverso la verifica della loro convenienza per una esistenza umana più adeguata. I valori si difendono mettendoli alla prova nella pratica, rischiando anche sulla loro disarmata fragilità. Entrando nel circuito delle relazioni sociali, i germi di umanità rigenerata possono diventare capaci di fecondarsi e di sostenersi reciprocamente. Alimentano uno scambio vicendevole, in cui si può anche discutere ed entrare in conflitto, ma dove si alimentano “un dialogo e un incontro in cui ciascuno offra il contributo della propria esperienza alla vita comune”.
La via del “negoziato” su ciò che è il bene primario diventa inevitabile per ricostruire un tessuto di virtù non solo predicate a parole che, partendo dal piccolo, immettano anticorpi vitali nell’orizzonte della Grande Depressione. Come ha chiarito il magistero più recente della Chiesa, dall’ultimo Benedetto XVI a papa Francesco, l’arena aperta della pubblica piazza è il teatro della politica moderna: dove i soggetti diversi entrano in contatto e in un certo senso si sfidano per trovare il giusto compromesso, quello che consente di contrattare la traduzione in termini politici e legislativi, di portata collettiva, dei valori a cui ognuno di loro ritiene di dover restare agganciato.
La scommessa è perforare la barriera delle ideologie chiuse, per ridefinire, dentro il pluralismo del mondo di oggi, le vie di una difesa dell’umano in ciò che sentiamo decisivo per il suo compiersi. È il realismo della prudenza amante della libertà dell’uomo. La verità e il bene non sono una griglia di idee precostituite da brandire come clava. Sono il traguardo verso il quale mettersi in cammino, dimostrando con i fatti le ragioni della propria fedeltà ostinata, aprendosi all’accoglienza di chi non può essere la replica della nostra stessa identità, a sua volta ferita, segnata dai lividi di una sofferenza di cui siamo noi a portare la responsabilità primaria.