Mentre in Italia ci arrovellavamo le menti con argomenti esiziali come il destino ministeriale del viceministro Rixi in caso di condanna quest’oggi (ancora non si sapeva del gesto teatrale di Luigi Di Maio, né dell’invio anticipato della letterina dell’Ue), da Oltreoceano arrivava la certificazione dell’arrivo in grande stile della recessione. Addirittura, prima del previsto. La pantomima commerciale con la Cina, tornata stranamente in auge e in grado di monopolizzare il sentiment dei mercati dopo la pausa delle europee, è riuscita nel suo intento. E questo grafico parla decisamente chiaro: non solo la curva dei tassi ha raggiunto un livello che non si vedeva dall’agosto 2007, con un’inversione drastica fra rendimenti a 3 mesi e 10 anni, ma, soprattutto, quel livello interessa ormai un segmento che copre attorno ai 15 anni di scadenze. Insomma, anche il più incrollabile degli ottimisti deve alzare bandiera bianca. E, soprattutto, nessuno ormai all’interno del board della Fed sarà più in grado di mettere minimamente sul tavolo argomentazioni a favore di un rialzo dei tassi. La vera missione di Donald Trump, di fatto, è stata compiuta.
Ora si tratta di capire quando e quanto la Federal Reserve interverrà per tagliare il costo del denaro: la prezzatura del mercato, attraverso i futures, parla ormai di almeno due sforbiciate al costo del denaro nel corso del 2019. Non basta. Lo dicono le dinamiche finanziarie più estreme, per capirci quell’universo di titoli obbligazionari corporate con rating BBB che ormai rappresentano ben oltre la metà dello spettro generale del credito: i cosiddetti fallen angels, bond che stanno con un piede nell’investment grade e un altro nel junk. Limbo totale: un limbo, però, che come ci mostra questo grafico da qui al 2025 – con un picco enorme nel 2024 – andrà incontro a un vero e proprio “muro di maturazioni” in grado di schiantare il mercato, se per caso qualcosa andrà fuori giri e si innescherà una catena di default dovuto a un aumento dei costi di finanziamento.
Come sia messa la Cina, a livello bancario e di conseguenza nell’universo obbligazionario, l’ho spiegato nel mio articolo di ieri. C’è poco da fare, signori: o parte un Qe4 in grande stile, ancorché con forme differenti e nomi più esotici, oppure è solo questione di tempo. E non di molto tempo, vi assicuro. E l’Europa come si attrezza a questa prospettiva di disgrazia potenziale globale? Giovedì prossimo si terrà il board della Bce e, viste le prospettive inflazionistiche dell’eurozona e la promessa di Draghi di valutare attentamente le evoluzioni macro come pressoché unico criterio decisionale, potremmo attenderci di tutto. Dall’immobilismo totale, appunto in attesa delle mosse di Fed e Pboc che ormai si prezzano come più che imminenti, fino a un’apertura di credito verso interventi più spinti a tutela del comparto obbligazionario: leggi, andare oltre al mero – ancorché già esiziale, ad esempio per il nostro spread sul debito pubblico – reinvestimento dei titoli in detenzione.
Come? Due ipotesi: intervenire ulteriormente sul criterio di capital key, quello che guida il bilanciamento pro-quota delle detenzioni o, ipotesi che valuto più efficace, paventare una qualche forma di ritorno all’intervento nel ramo obbligazionario corporate, quello che pagherebbe il conto più salato a una recessione tout court e a un possibile, conseguente credit crunch per le aziende europee in tempi di guerra commerciale. Sarà guerra psicologica, quella che Mario Draghi sarà chiamato a combattere. E contro il tempo, soprattutto.
La Fed ci toglierà le castagne dal fuoco? Sul brevissimo periodo, ne dubito. Quantomeno perché servirebbe uno shock ribassista decisamente serio, roba da 350-400 punti di calo dello Standard&Poor’s in un paio di settimane, massimo tre. A quel punto, si taglierebbe. Ma dubito, anche in quel caso, che si andrebbe oltre al quarto di punto: e stante le dinamiche cinesi, quella percentuale non basta per garantire sostegno a livello globale. Perché signori, noi stiamo tutti quanti scordandoci un dato di partenza che è di fondamentale importanza: nei mesi di gennaio e marzo, congiuntamente, la Pboc cinese ha iniettato nel sistema ben oltre un triliardo di yuan, circa 850 miliardi di dollari in via emergenziale e tramite nuovi prestiti agevolati all’economia. Risultato? Zero. Ha soltanto evitato crolli, ma, a casa mia, se una manovra che si chiama “di stimolo” non stimola nulla ma garantisce a malapena la sopravvivenza allo status quo, o è errata nei modi o nei tempi o, come temo, nell’ammontare.
E questo funziona da proxy del vero, enorme e ontologico problema cinese: di quanto denaro statale a costo zero ha bisogno l’economia del Dragone per continuare a crescere e stabilizzare le dinamiche mondiali, non ultimo l’impulso creditizio che garantisce balsamo ai mercati finanziari? Signori, questo è il vero redde rationem, la ragione per cui un Qe4 è inevitabile. E poi 5, 6, 7 fino all’helicopter money e all’espansione strutturale: il Re è nudo, il prossimo schianto stile 2008 non solo sarà peggiore, ma, di fatto, svelerà al mondo gli enormi schema Ponzi finanziarizzati fino al midollo in cui si sostanziano le prime due economie del mondo, due giganti dai piedi d’argilla che prosperano solo sull’eccesso di indebitamento e il dumping strutturale, sia monetario che di iper/produzione-consumi. E, nel caso della Cina, esportazione di deflazione. Necessaria, a sua volta, a tenere artificialmente compresse le aspettative inflazionistiche, in modo da poter inserire nella cassetta degli attrezzi ordinari ciò che fino al 2010 era straordinario: il Qe, appunto.
Guardate le dinamiche Usa: hanno, formalmente, l’economia che cresce sopra al 3%, la disoccupazione ai minimi dal 1969, l’inflazione all’1,6% e parlano di tagliare i tassi. Anzi, dalla Casa Bianca partono due tweets al giorno quasi di minaccia verso la Fed, affinché operi in modalità espansiva. Qualcosa non torna, lo capirebbe anche uno studente di economia al primo anno. Le dinamiche cinesi, in tal senso, sono anche peggiori. E attenzione, perché nonostante Pechino millanti l’utilizzo della domanda interna per riequilibrare il gap commerciale del mancato export verso gli Usa a causa dei dazi, anche i sassi sanno che in Cina quella domanda è limitatissima in quanto tale e diviene di massa solo attraverso incentivi statali e ulteriori politiche di stimolo mirato. Di fatto, per tamponare i disequilibri, Pechino si indebiterà ancora di più. E se per caso sarà così stupida da vendere debito Usa in massa come arma strategica, vedrà lo yuan apprezzarsi in tal modo da finire – di fatto – fuori mercato a livello di concorrenzialità delle merci. Anche nei confronti dell’Europa.
Signori, questo è il quadro che si sta sviluppando in questi giorni e ore. Ritenete di fondamentale importanza il caso Rixi o l’infinita e patetica disputa sul Tav? Benissimo, sappiate solo che il mondo sta discutendo della sua stessa sopravvivenza, mentre noi spolveriamo i mobili del soggiorno e ci preoccupiamo di abbinare la tinta delle pareti con il colore del tappeto dentro una casa che sta andando a fuoco. Tanto vi dovevo, poi ognuno è libero di appassionarsi di ciò che vuole. Anche sul ponte del Titanic c’era gente che continuava a suonare, d’altronde. De gustibus.