Ma è proprio vero che occorre tacere sul tragico gesto di Vittore Pecchini? Terminata una regata tra istituti, era tornato nella sua casa al Lido di Venezia e, lì, ha deciso di farla finita, dopo aver telefonato alla propria compagna. Era preside reggente da un anno allo “storico” Liceo “Marco Polo” di Venezia e titolare da quattro anni del Polo tecnico professionale della città.
Certo, nessuna parola potrà mai rendere l’insondabilità del dramma interiore di un uomo, la cui solitaria sofferenza non può essere usata da nessuno, ma solo guardata con profonda umanità.
Quella disperata affermazione che è il suicidio dev’essere nata da una sofferenza grande, che non può lasciare indifferenti, che non può non provocare dolore in chiunque, specie i più vicini alla vicenda.
Quella tragica morte non può passare invano. Anche nel suo Liceo ne saranno consapevoli.
Pur nella povertà delle parole che si possono scrivere, si deve riflettere almeno sulla condizione umana e professionale che circonda questa dolorosa vicenda. Gli stessi che negli ultimi mesi avevano costruito una battaglia sulle sue scelte, han dovuto fermarsi e di certo misurarsi con l’insondabile significato di quanto accaduto.
Il preside Pecchini, dai racconti, appare un uomo di cultura (parlava più lingue), di azione (era istruttore di vela e sub), conoscitore della macchina scolastica (a Venezia arriva dopo aver diretto quattro scuole italiane all’estero). Eppure nella sua sofferenza appare solo con sé stesso, stanco di conflitti: “Sono stanco, arcistufo: a scuola mi stanno attaccando tutti, genitori e docenti”, pare abbia detto pochi giorni prima di morire.
La contestazione nei suoi confronti si trascinava da mesi, addirittura con picchetti, assemblee, consigli comunali, interpellanze parlamentari. La causa: la decisione di accorpare delle classi sottodimensionate; terze e quarte da 14-15 studenti dello “storico” liceo classico dovevano diventare da 27-28 studenti. Decisione in vero presa dal provveditorato, come ovunque in Italia, dopo anni di continue deroghe. La polemica, forse legata all’inevitabile calo dei posti docenti ed a problemi di capienza delle aule di un edificio poco adeguato, aveva persino generato una pagina Facebook (metodo ormai diffusissimo nelle scuole) con post continui contro il preside, accuse di “ipocrisia” e “inadeguatezza”, di “spregio della democrazia”. “Ti mettono sotto i piedi, c’è un brutto clima in questa scuola” avrebbe detto ai giornali una non docente del Liceo.
Purtroppo questa è una situazione diffusa: la scuola italiana è divenuta negli anni luogo di conflitti sempre più aspri, dove i rapporti possono diventare disumani al punto da rendere impossibile quella “comunità educante” che, paradossalmente poi, il sindacalese ha voluto come idea nelle testate del contratto scuola, ma idea poi ben lontana da molte pratiche di azione.
La Corte dei Conti lo scorso anno ha ben documentato come il mondo scolastico veda al proprio interno il più forte aumento di conflittualità che la giustizia italiana (amministrativa, civile e penale) possa registrare.
Forse non c’è collegamento, come sostiene il ministro, ma è un fatto che la condizione dei presidi delle scuole statali negli ultimi 15 anni è peggiorata sotto tutti i punti di vista: aumento irragionevole di responsabilità, attribuzione insensata di numerosi incarichi, ritardi enormi nel concorso per i nuovi incarichi (che comunque lasceranno ancora centinaia di posti da coprire di nuovo con reggenze), aumento esponenziale di procedure ai limiti del tollerabile, forte calo di strumenti di azione effettiva e, non ultimo, sproporzione tra le prestazioni richieste ed il salario riconosciuto.
Accade poi che la mancata manutenzione degli edifici scolastici venga fatta pagare ai dirigenti scolastici individuati come “colpevoli” in quanto “responsabili”. Ci sono stati persino presidi finiti in prigione o agli arresti, incriminati per mancati interventi sugli edifici, che di fatto sono di proprietà di comuni e province.
Ma il vero peso credo sia, spesso, l’impossibilità di trovare una corresponsabilità con docenti e genitori, in un clima di forti polemiche sui diritti esaltati da tanti organismi sociali e di comunicazione, a fronte del disconoscimento diffuso dei doveri, specie quello della collaborazione a quella che, con buona pace di tutti, è l’impresa socialmente più difficile: quella di educare istruendo.
Di quanta umanità ha bisogno la nostra povera scuola!
Per questo quelle arrivate dal Patriarcato di Venezia sono risultate parole vere: “C’è una fragilità sottile e diffusa, che colpisce tutti, giovani e adulti, studenti, docenti e genitori… C’è il bisogno di una speranza che non venga meno nel mare della solitudine, che sembra sommergere tante (troppe) volte il desiderio di una vita bella… Abbiamo bisogno di essere tenuti da una amicizia vera, un’amicizia che si faccia vicina nel momento del bisogno e che si traduca in una autentica alleanza tra tutti: genitori, insegnanti, dirigenti e studenti”.
E laddove si vive già questa “amicizia civile”, questa diventa fattore di speranza nella scuola, che inizia a vincere la disumanità che vi regna.