La storia di Noa Pothoven, l’adolescente olandese morta domenica scorsa per eutanasia, ha davvero molto da insegnarci in un momento in cui il parlamento italiano, sotto la pressione della Corte Costituzionale, sta lavorando ad una legge italiana sull’eutanasia. L’Olanda ha fatto da apripista in Europa e dopo aver varato una legge con molte restrizioni è andata via via allargandone le maglie, fino ad arrivare pochi mesi fa anche all’eutanasia dei minori. Ma il caso di Noa ha un che di sconvolgente che desta tutta la comprensione di cui siamo capaci per la sua sofferenza, ma anche tutta la nostra indignazione per l’assoluta incapacità di farsene carico da parte del Sistema socio-sanitario in Olanda.
A 11 anni e a 12 anni Noa subisce le prime violenze in occasione di alcune festicciole tra amici e compagni di scuola. A 14 anni viene stuprata da due uomini mentre cammina nel suo quartiere: l’impatto che ne riporta è così violento sul piano psicologico da farla vergognare: come se fosse stata colpa sua, per cui non denunzia il fatto, ma ne subisce tutti gli effetti devastanti. Inizia una forma di anoressia, che la induce a rifiutare il cibo, e scivola progressivamente in uno stato depressivo che diventa un modo permanente di vivere.
La sofferenza psicologica che sperimenta la induce a desiderare la morte, a non provare più nessuna gioia di vivere: sono gli effetti di uno shock post traumatico mai elaborato. Ma lei non lo sa e si rinchiude sempre più in se stessa. Rinuncia ai rapporti con le amiche e gli amici e si accontenta della comunicazione sui social. Comunica la sua tristezza, ma tutto ciò non l’aiuta a curarsi e ad uscire dallo stato depressivo che diventa sempre più insidioso.
Scrive un libro, una sorta di autobiografia: Vincere o imparare, per raccontare la sua battaglia contro il disagio mentale e per provare ad aiutare altre persone giovani come lei. A dicembre aveva raccontato ai media olandesi di aver provato a contattare una clinica per il fine vita all’Aja, senza il consenso dei genitori. Voleva morire, ma voleva soprattutto uscire dallo stato di sofferenza e aiutare altri giovani come lei a curarsi, a reagire allo stato depressivo. Ma soprattutto voleva denunciare un fatto eclatante: in Olanda non esistono istituzioni o cliniche specializzate per ragazzi con questo tipo di problemi. Noa ha scelto di morire perché non è riuscita a curarsi, ma quel che voleva era curare se stessa e i coetanei che come lei soffrivano per il loro disagio psichico.
Molti ragazzi nelle sue condizioni, quando sperimentano i loro fallimenti anche sul piano delle cure, tentano il suicidio, nelle mille forme che conosciamo e che generalmente implodono nella solitudine, tutt’al più accompagnata da una lettera per dopo: qualcosa che spieghi il loro gesto, magari chiedendo perdono e confermando il proprio affetto alle persone che si amano. Ma Noa fa qualcosa di completamente diverso: chiede aiuto per suicidarsi; annuncia sui social che ha intenzione di uccidersi. Confessa le sue incertezze, ma comunica di averle risolte e insiste per non avere risposte. È troppo debole per elaborarle e comunque non intende cambiare idea.
Non ci vuole molto per interpretare questa sua condotta come una evidente richiesta di aiuto: vorrei suicidarmi, ma da sola non ce la faccio… statemi vicino, aiutatemi a morire. Da 10 giorni aveva lanciato il suo messaggio. Vi avviso che sto per morire, ma nonostante i miei dubbi non tornerò indietro, però vi comunico la mia fragilità, da sola non ce la faccio. Sappiatelo, sembrava dire, e se potete statemi vicino.
L’ultimo messaggio su Instagram è stato: “Amore è lasciar andare”. Ma in realtà ha ribadito che ciò che davvero stava cercando era solo Amore. Ha atteso l’arrivo di tutti i permessi richiesti dalla legge: una burocrazia che avrebbe consentito lo spazio per un ripensamento; ma non c’è stato proprio perché Noa, mai come in quei giorni, ha avuto sua madre vicino. Ha atteso la morte nel soggiorno di casa sua, dove è stato portato un letto d’ospedale con tutto l’occorrente, e lì ha esalato il suo ultimo respiro, mano nella mano della madre. Una storia drammatica e piena di contraddizioni, in cui anoressia e depressione marcano profondamente una vita già violentata, che appare indegna di essere vissuta, mentre invece esprime una infinità necessità di essere amata e di non essere lasciata sola.
In Olanda, com’è noto, l’eutanasia può essere accordata a partire dai 12 anni di età, ma solo dopo che un medico abbia certificato che la sofferenza del paziente è insopportabile e senza alcuna via di uscita. Ma appare realmente improbabile pensare che nel caso di Noa non ci potessero essere alternative di cura più umane e più efficaci. L’eutanasia deve essere praticata alla presenza di un medico, come se si trattasse di un atto medico che impegna un professionista ad andare oltre i limiti della deontologia professionale. Oltre tutto “la diagnosi di dolore insopportabile e senza via d’uscita” deve essere confermata da un secondo medico che verifica la sussistenza di queste condizioni. Due medici per dire che non c’è alternativa alla morte e che la medicina dichiara il suo fallimento. Nel 2017, circa 6.585 persone hanno chiesto e ottenuto l’eutanasia in Olanda, circa il 4,4 per cento dei decessi totali nel Paese, secondo un comitato che si occupa di monitorare il fenomeno. Ovviamente anche in Olanda l’eutanasia è oggetto di accese polemiche e obiezioni non solo sul piano etico-religioso, ma anche su quello sociale e clinico-assistenziale.
Tutto questo accade in Olanda, mentre in Italia la Corte Costituzionale pone al Parlamento scadenze ben precise: il prossimo 24 settembre, per deliberare in merito ad una legge sull’eutanasia. La storia di Noa deve far riflettere almeno su tre cose fondamentali: la solitudine degli adolescenti, che non riescono a comunicare neppure la violenza di cui sono vittime; l’insufficienza delle misure terapeutiche messe a loro disposizione, soprattutto in termini di una psicoterapia rigorosa ed efficace; la consapevolezza che tutto ciò può condurre alla morte, con l’aiuto-complice di uno Stato che non ha saputo aiutarla a vivere e ora somministra fin troppo facilmente la morte.
Noa è un’adolescente che muore perché non ha ricevuto l’aiuto necessario ad elaborare le prime violenze subite, ed è proprio a partire da qui che siamo obbligati a riflettere. Quale aiuto diamo sul piano psicologico a queste ragazze giovani, spesso giovanissime, dal momento che sappiamo con quanta frequenza le adolescenti sono oggetto di violenza? Una su quattro è il triste primato di cui parlano le statistiche. A Noa è mancato il primo aiuto, quella sorta di prevenzione secondaria che avrebbe dovuto condurla a denunziare immediatamente lo stupro subito in strada all’età di 14 anni, quando, forse più consapevole di quanto era accaduto, se ne è vergognata, come se fosse lei la colpevole, e non ha saputo denunziare i suoi violentatori. Sappiamo che questo strano modo di pensare è assai più frequente di quanto non sembri e serve una psicoterapia prolungata, delicata, efficace e competente per aiutare a capire cosa è accaduto, per trovare la forza di una denunzia coraggiosa in un contesto spesso ostile e scettico.
Già nella sua anoressia però era presente il desiderio di morte: il rifiuto del cibo come anticamera di un desiderio di farla finita con la vita si è gradatamente trasformato in uno stato depressivo crescente, che spesso conduce al suicidio gli adolescenti. Il suicidio è la prima causa di morte tra gli adolescenti, ma Noa ancora una volta ha lanciato il suo grido di aiuto e ha voluto essere aiutata a suicidarsi; un aiuto che ha trovato nell’anonimato della morte di Stato.
Una vicenda tristissima che ci provoca e ci obbliga a riflettere attentamente in un momento in cui la Camera lavora ad un progetto di legge proprio sull’eutanasia. Morire per mano dello Stato può essere davvero troppo facile, mentre il Ssn dovrebbe curare: curare chi è vittima di violenza… curare chi è affetto da anoressia… curare chi è depresso. Tre ragioni per curare Noa che non sono bastate a difenderla. Chiedere di morire non è la stessa cosa che voler morire davvero. È sempre e prima di tutto voglia di vivere, con qualcuno che ti dia una mano.