Caro direttore,
ora che l’anno scolastico si è chiuso c’è una domanda che mi “tormenta”: ne è valsa la pena? Questi nove mesi sono valsi la pena e la fatica fatte? I volti che ho incontrato sono valsi la pena e il sacrificio di tempo ed energia che mi hanno richiesto? Valgono la trepidazione degli scrutini?
La domanda esplode in questi giorni così potente solo perché mi ha accompagnata tutto l’anno, innanzitutto come sfida ai miei ragazzi: se quelle sei ore in aula che sono loro chieste ogni giorno non portano con sé la speranza certa che ne valga la pena, sarebbe inutile svegliarsi la mattina, percorrere anche molti chilometri fino al cancello e poi… e poi trovare la forza per varcare la soglia e stare. Stare per ore lì, con me e con altri volti. Ma a fare cosa?
Non è una domanda retorica la mia, ma un desiderio vivo e bruciante di fare un bilancio del tempo che è trascorso da settembre ad oggi, perché io voglio che la vita mia e di chi mi è affidato fioriscano, diventino grandi e piene: ricche di significato. Non perfette, ma felici.
Mai come in questo anno scolastico, infatti, ho dovuto guardare in faccia l’abisso del dolore, dentro e fuori dalle mura scolastiche.
Vivo in mezzo agli adolescenti ogni giorno, e non solo a scuola, e il disagio che loro vivono non è altro che lo specchio delle certezze che noi adulti non sappiamo più dare.
Sbandieriamo la morte come una possibilità tra le tante e poi ci stupiamo di come loro accanitamente la cerchino, dentro lo sballo che vorremmo legalizzare o che derubrichiamo come “ragazzata”, dentro rapporti di possesso e gelosia a cui non riusciamo a dare un’alternativa, dentro vite al limite (della legalità, del “buon gusto”, della ragione…), perfino dentro un desiderio di morte vera che li porta a farsi del male o a gesti estremi, che mi appaiono oggi sempre più frequenti anche tra noi “grandi”.
Come si può guardare a tutto questo senza lasciarsi schiacciare, senza soccombere, senza cercare facili scappatoie che portino i ragazzi a non scappare dalla realtà, ma a farci i conti seriamente?
In questi mesi la risposta più chiara ed eloquente mi è arrivata da Dante e da una splendida classe quarta di Tecnici per l’automazione industriale (ragazzi che di certo non hanno scelto il mio istituto per studiare lettere con me).
Sono stati proprio loro a rispondermi perché, dentro la “selva oscura”, hanno lasciato esplodere in se stessi la domanda della vita: si può veramente uscirne? C’è davvero qualcuno che può guidarci su una strada buona, addirittura fino a guardare in faccia il senso della vita?
Tra loro e Dante è iniziato un dialogo così serrato che ha travolto tutta la programmazione di inizio anno e ogni argomento trattato da quel momento in poi, portandoci a confrontarci con vite che davvero avevano smarrito la “diritta via”, ma che sono riuscite a rifiorire, nonostante le pessime premesse. I miei alunni si sono messi così in discussione che le nostre lezioni si sono protratte per interi pomeriggi, ben oltre l’orario scolastico, fino all’organizzazione di un incontro pubblico sul tema del carcere e delle seconde possibilità.
Alcuni di loro sanno già che l’anno non ha avuto un buon esito eppure, il giorno prima degli scrutini, ho detto a ciascuno che nessuno (nessuno!) può chiudere questi mesi dicendo di averlo “perso”: resta per tutti un anno pieno e ricco perché nessuno di noi è oggi la persona che era il primo giorno di scuola.
E allora, mentre il caldo ci attanaglia e i problemi non sono risolti, mentre si deve decidere di promozioni e bocciature, io posso affermare con certezza che ne è valsa la pena. Ne è valsa la pena non perché siamo più bravi di allora, né perché siamo diventati particolarmente saggi, ma perché attraverso quel che dovevamo fare ci siamo scoperti in cammino, desiderosi che la vita abbia un significato e di scoprire quale sia.
Ne è valse la pena perché questo viaggio ora sappiamo che non si può fare da soli e che seguire uno che ci segna la strada non vuol dire perdere noi stessi, ma ritrovarci e diventare talvolta “guide” gli uni per gli altri.
Ne è valsa la pena, soprattutto, perché io, disorientata dal dolore incontrato in così pochi mesi, ogni mattina in auto ho cantato il Discendi Santo Spirito, scoprendomi così certa di non essere mai sola, di una forza che non è mia e soprattutto di non dover portare io il carico di male e di fatica che mi viene consegnato ogni giorno, ma di poterlo sempre riaffidare all’Unico che lo ha già tutto salvato e caricato su di Sé.
Io per mesi ho detto solo il mio piccolo e banale sì quotidiano e Dio ha compiuto meraviglie davanti ai miei occhi, facendo riaccendere e rifiorire molte vite… specialmente la mia.