“Rinvio al 9.12.2019 non avendo esaminato il fascicolo cartaceo ai fini della decisione”. È il provvedimento con cui uno degli 8mila giudici italiani, a inizio giugno, ha rimandato di 6 mesi l’udienza di una causa iniziata nel 2014. Doveva essere l’udienza conclusiva di “discussione orale”, che è un’ipotesi disposta solo in casi particolari (non è la regola), e che può concludersi con una sentenza resa al momento. Il giudice ha in sostanza confessato di non sapere nulla di quel fascicolo, formatosi in 5 anni. È stato anche onesto, intellettualmente, perché poteva sentire le sintesi degli avvocati e decidere all’impronta senza avere consapevolezza delle circostanze che contano.
Questo è il problema serissimo. Che gli eventi e gli intrecci alle cronache in questo periodo, enormi, delicati, su cui – salvo capire cosa è successo – si comincia già a sentire l’impeto rinnovatore e riformatore di qualcuno, sono un problema della magistratura, non della giustizia. La relazione fra i poteri dello Stato, le dinamiche con cui questi funzionari pubblici investiti di un ruolo fondamentale decidono le proprie regole sono cose importanti, importantissime, ma non sono il problema della giustizia. Negli scorsi mesi, alla luce del sole, Trump ha fatto di tutto per nominare giudici della Corte suprema con posizioni culturali amiche delle sua visione, ma ciò non impedisce alla Corte suprema – in questi giorni – di rendere sentenze sui diritti civili coerenti con l’assetto valoriale e ordinamentale di un paese come quello americano. La Corte suprema “di destra” decide su aborto e su transgender come ci si aspetta in quel paese.
Perciò se Lotti fa cene con alti magistrati e se Palamara briga per la nomina del procuratore di Roma, fatto salvo che non vi siano reati degni di questo nome, tutto può essere ma non certo un problema della giustizia. Il problema della giustizia sono la durata inenarrabile delle cause civili, la quantità di prescrizioni di processi penali, ma anche più di qualche deficit nel modello processuale penale, specie nella fase inquirente e istruttoria. Nonché l’esistenza stessa della giustizia amministrativa che molto semplicemente andrebbe abolita in un secondo e ricondotta nell’alveo di quella civile. Per fare solo un esempio, forse estremo e non generalizzabile: chi ha a che fare con queste sciagure (perché avere a che fare con la giustizia in Italia è una sciagura) ti dice per esempio che di questi funzionari pubblici, in moltissimi casi, non si conosce l’orario di lavoro. Non si sa a che ora attaccano, a che ora si ritirano, a che ora sono reperibili. Non si sa perché nel caso sia sfuggito di leggere quel fascicolo, o in caso di febbre, o di sciopero della metropolitana per cui il giudice non è arrivato, l’udienza per rimediare non venga posta un sabato mattina fra 10 giorni, ma dopo 6, 10, anche 14 mesi.
Marco Pannella oltre trent’anni fa è stato il primo, Mario Draghi ha offerto di recente anche qualche percentuale, decine di studiosi e consulenti in tutto il mondo spiegano quanto costa in termini di Pil la malattia cronica della giustizia italiana. Sempre a non voler parlare di diritto e dignità della persona. I magistrati italiani sono più che sufficienti in numero e ampiamente preparati per offrire idee e soluzioni che questa specie di politica si guarda bene dal proporre. Ma non saprebbe farlo, peraltro, perché i “politici”, la “classe dirigente” non è scelta in base al profilo, all’inclinazione alla sintesi, alla prospettiva strategica ma in base alla fiducia, alla capacità di zerbinaggio. Essere zerbino del capo o capetto del momento, questo conta per esistere.
Gli ottimi magistrati italiani potrebbero fare il colpo di mano, rompere gli schemi e assumere iniziative scandalose. Proprio adesso. E cioè ignorare la polemica che li riguarda come corporazione e lanciare una sfida, insieme alle università italiane. Quella di una vera riforma della giustizia.