Oggi volevo scrivere un post acuto e divertente, e forse anche un po’ irriverente, sul tema degli scrutini, ma, forse perché sono reduce da lunghe riunioni, la mia propensione al divertimento, mio e di chi mi leggerà, si è come polverizzata.
Gli scrutini sono un momento in cui si esprime una valutazione globale sullo studente, e la valutazione è collegiale; altrimenti, per fare gli scrutini, basterebbe che ciascun professore del consiglio di classe compilasse la colonnina relativa alla sua materia sul registro elettronico, e poi il sistema provvederebbe da sé. Così non è. Ma quante volte, davvero, un consiglio di classe si spende effettivamente per analizzare a fondo la situazione di uno studente?
Poche, soprattutto perché uno scrutinio di fine anno, e, parlo per le scuole secondarie di secondo grado, anche di fine quinquennio, dovrebbe essere il bilancio di un lungo periodo di formazione e di conoscenza dello studente. Ma così non è, molto spesso, e per vari motivi, non ultima la cronica mancanza di tempo, l’orologio che impone tempi contigentati per i consigli e gli scrutini: a volte è un bene, per evitare il protrarsi all’infinito di stanche discussioni; ma altre volte, si avverte, soprattutto alle superiori, la mancanza di uno spazio di confronto fra docenti di una stessa classe, di un momento istituzionale e un po’ meno preda della tirannia del tempo dei consigli di classe nei tre-quattro momenti canonici extra scrutinio (solitamente, ottobre, novembre-dicembre, marzo e maggio). Pensiamo al caso di “classi terminali” (che brutta definizione! Sinistra, non è vero? Sa molto di Csi o di Criminal Minds), che abbiano avuto una grande alternanza di docenti. Credete voi che i casi particolari, quelli con conclamate fragilità, abbiano potuto ricevere tutta l’attenzione continuativa loro dovuta in situazioni in cui, per esempio, in tre anni vengono cambiati quattro coordinatori di classe, e in un quinquennio di liceo scientifico si susseguono sette insegnanti di italiano e cinque di matematica?
In questi casi, si sa, il docente che, per vari, personalissimi motivi (assegnazione provvisoria, supplenza annuale, supplenza a vario titolo su malattia/maternità, trasferimento in previsione, anno di prova in corso, per cui meglio largheggiare in voti, non sia mai che il Ds si risenta per valutazioni troppo severe, prossimità del collocamento a riposo, burnout eccetera), decide di non affondare troppo la spada nella carne viva dei problemi, e di elargire voti dal 6 a salire e giudizi lusinghieri, sa benissimo di meritarsi momentanei ringraziamenti, ma di fare il male dello studente, e dei consigli di classe successivi, cui rimpalla il problema. Che poi, di classe in classe, viene rimbalzato sino allo scrutinio finale di quinta, per il quale l’attuale normativa consente, è vero, di ammettere all’esame uno studente che presenti un’insufficienza, motivando la scelta del consiglio di classe; ma diciamocelo seriamente: quali sono le materie che storicamente raccolgono più insufficienze? Quelle maggiormente approfondite, ovvero quelle d’indirizzo, e cioè: latino e greco al liceo classico, matematica e fisica al liceo scientifico, tedesco al linguistico e così via. E voi credete che un consiglio di classe composto da persone che, in teoria, non dovrebbero avere la vocazione dei kamikaze, voglia esporre uno studente a un esame di Stato con una delle materie di indirizzo, oggetto di seconda prova, insufficiente?
E così, di pietosa bugia in pietosa bugia, di formula cosmetica della realtà in eufemismo spinto, si arriva ad ammettere lo studente all’esame, con l’affermazione, che non comparirà in nessun verbale ufficiale: “Ora se la dovrà giocare lui: noi abbiamo fatto tutto il possibile” ; che è poi un modo gentile per dire: “Se la vedrà la commissione” (in cui, ricordiamocelo, tre tapini sono i commissari interni, spesso nella condizione, loro sì, di ultimo combattente giapponese nella selva, chiamati a difendere l’indifendibile).
Perché, ricordiamo il vecchio detto, il medico pietoso fa la piaga cancrenosa. Si spiegano in questo modo quegli esiti un po’ tristi, di esami superati con il punteggio di 60/100, forse, via, anche di 61 o di 62, valutazioni così grigie anche per lo studente il quale, ammettendo che riesca a strappare un diploma purchessia con le unghie e con i denti, che cosa potrà mai combinare, all’università e nel lavoro, con conoscenze risicate, competenze limitate, spesso scarsa autonomia di studio e un metodo insufficiente per risolvere i problemi? Che soddisfazione personale può trarre da cinque anni di studi superiori uno studente che, se solo ha un minimo di acume, capisce di essere stato rimpallato di classe in classe senza che nessuno si sia voluto accollare lo scomodo compito di parlargli a tu per tu e di proporgli un riorientamento verso una tipologia diversa di istituto, dove, magari, avrebbe potuto avere non solo voti migliori, ma anche quella soddisfazione e quella crescita nell’autostima e nell’autonomia che dovrebbe essere il vero il frutto di cinque anni di scuola secondaria di secondo grado?