Cosa sta succedendo in Europa? Che cosa cambia dopo il voto europeo e l’avanzare della trasformazione del sistema delle relazioni tra Stati in Europa e nel mondo? La struttura di tale relazione in Europa è costituita da una forma di superfetazione tecnocratica che rende faticosissimo e quasi impossibile l’emergere di un involucro istituzionale che sia idoneo sul piano funzionale a garantire l’unificazione del processo decisionale in atto nella sfera economica con quello in atto nella sfera politica.
Com’è noto, nella storia secolare e ineguale della circolazione delle élite politiche emerse dal capitalismo, la democrazia rappresenta un risultato assai recente e instabile nella sua forma dettata dal suffragio universale. Le dittature tra le due guerre e il franchismo, il salazarismo e i colonnelli greci stanno a ricordarcelo sino al decennio Settanta del Novecento. La forma politica in cui l’incompiuto impero europeo giunge nel secondo millennio è quanto di più instabile e meno statico si sia potuto creare nel rapporto tra economia e politica. Mentre infatti i profeti dell’impero invocano la centralizzazione poliarchica per affrontare le sfide di una competizione globale che intravedono tra blocchi continentali (tra potenze di mare e di terra), nulla di tale centralizzazione si è realizzata nei decenni che sono seguiti al fatidico 1957 dopo la firma del Trattato di Messina tra Scilla e Cariddi.
Lì si è rimasti, invocando la centralizzazione politica e perpetuando invece la divisione militare economica e politica di un incompiuto impero unificato solo dall’alto con una ragnatela tecnocratica preda di lobbismo e giurisprudenzialismo, in assenza di una Carta costituzionale europea e di partiti politici europei e di grandi gruppi industriali e finanziari europei e di una disciplina tanto della politica (un Parlamento privo di poteri) quanto dell’economia (regole antitrust pro consumatori e contro i produttori).
Questa incompiutezza volge al disfacimento, alla disgregazione, come la Brexit e le recenti elezioni europee dimostrano con la vittoria liberale ed ecologista che proprio queste non omeostaticità amplificheranno sino all’esaurimento. La continuità ormai non più frenabile dell’ordoliberismo (che quelle forze vincitrici esaltano sugli altari della lotta al debito come peccato) non potrà che rafforzare le spinte centrifughe con conseguenze che saranno devastanti. L’emergere della Cina come potenza marittima eversiva dell’ordine internazionale non farà che aumentare le spinte centrifughe attirando a sé le periferie più deboli: Portogallo, Grecia e Italia – l’Italia che sta perdendo rapidamente la sua strategica posizione di ultima dei primi e prima degli ultimi.
È il frutto di un lavorio della borghesia vendidora italiana che inizia nel fatidico 1981 con il cosiddetto divorzio tra Bankitalia e Tesoro e culmina con il Fiscal compact inserito in Costituzione, abbattendo ogni possibilità reale e concreta di resistere per un insediamento stabile a Stato debole come l’Italia: di resistere ai venti della disintermediazione finanziaria internazionale quale si affermò negli anni Novanta del Novecento, con il primitivo volto della lotta alla corruzione.
Tutte le aspettative cresciute sull’italico suolo negli ultimi due anni si sono rivelate tradite da parte delle classi politiche peristaltiche elette dai variegati popoli degli abissi, mentre quelle che ancora impersonificano le aspettative di ciò che rimane della borghesia nazionale industriale e dei servizi faticano a cogliere il senso della battaglia epocale in corso.
Così ci si avvia, come i ciechi di Bruegel, verso il baratro di una lotta europea che sarà senza quartiere e che ha come fine di abbattere le borghesie nazionali italiche privandole di ogni capacità di resistenza dinanzi alle formule predatorie di una divisione internazionale del lavoro più spietata che mai, e che non potrà che condurre all’italica desertificazione. Amen.