Una nuova moneta sta per prendere il largo in questi giorni minacciando il monopolio di dollaro, euro, sterlina o yen. No, non stiamo parlando dei mini-Bot, copyright di Claudio Borghi, bensì dell’ultima trovata di Mark Zuckerberg, il genio di Facebook cui si deve buona parte dei benefici ma anche dei tanti guasti dei social network. Zuckerberg ha ormai messo a punto le caratteristiche di “Libra”, la valuta virtuale che promette di rivoluzionare il mondo dei pagamenti, soppiantando via web sia il contante che le monete elettroniche tradizionali.
In questa settimana hanno aderito al network, tra gli altri Visa, MasterCard e PayPal. Ma anche Uber e Booking.com più altri protagonisti dell’economia come Xavier Niel, il patron di Free. Ma Zuckerberg conta di radunare almeno cento soci (stima molto prudente) che verseranno 10 milioni di dollari ciascuno per acquistare una posizione nel network amministrato da una Fondazione svizzera. Il piano è già definito nei particolari, compreso il ruolo di Ted Bowles, uno dei più importanti lobbisti in circolazione, strappato a Standard Chartered per rappresentare presso mercati e governi il nuovo modo di spendere ma anche di investire, chieder prestiti o avviare imprese senza passare dalla banca (o dagli Stati). Una sfida tecnologica, oltre che geopolitica, rivoluzionaria che segna un ulteriore passo in avanti dell’economia digitale.
C’è da chiedersi se, prima o poi, sarà possibile scambiare Libra, oltre che o dollari o euro, anche nei mini-Bot che, secondo gli strateghi sovranisti, affiancheranno e sostituiranno l’euro almeno entro i confini nazionali. Non è facile rispondere, perché prima si dovrebbe capire se i mini-Bot intendono essere una moneta o una specie di cambiale che, secondo Mario Draghi, andrebbe semplicemente ad aggiungersi al debito pubblico già esistente. Ma esiste anche un’altra soluzione di cui parla Andrew Hilton, responsabile di Columbia Threadneedle Investments: “Credo – scrive – che ci sia un po’ di confusione tra la proposta sensata di cartolarizzare debiti commerciali in sospeso e le intenzioni forse più maliziose di coloro che, in Italia, cercano di innescare conflitti con la Commissione europea e gettare i semi di un’eventuale uscita dall’Eurozona”. “Questo obiettivo – argomenta l’economista – potrebbe certamente essere raggiunto tentando di competere con l’euro attraverso l’introduzione di una valuta nazionale. Ma tale rottura – non da ultimo attraverso la fuga di capitali su larga scala – potrebbe essere così tanto dolorosa che in pochi la vorrebbero realmente sperimentare”. Insomma, “l’idea di cartolarizzare i crediti futuri non è cattiva in sé, ma non sarebbe una valuta”.
Non è certo la prima volta che si fa strada l’idea di sostituire una moneta con qualcosa d’altro. Durante la rivoluzione francese, scrive la storica dell’economia Rebecca Spang, vennero introdotti gli assignat, certificati di carta creati per pagare i beni ecclesiastici confiscati alla Chiesa. Ma il sistema, basato sull’accettazione volontaria dei nuovi titoli non funzionò. In parte per motivi ideologici, perché per i cattolici era carta del demonio usata per togliere alla Chiesa quel che era della Chiesa, un po’ perché il sistema, articolato in tante emissioni parallele, portò ben presto a continue svalutazioni della carta “rivoluzionaria” come del resto è accaduto altre volte, quando la valuta cattiva ha scacciato quella buona. E così, nella Francia prenapoleonica, gli assignat, snobbati dalla borghesia, divennero il denaro dei poveri, costantemente svalutato rispetto alle monete buone. Magari quelle virtuali di Zuckerberg che, mi perdoni il vulcanico Claudio Borghi, mi convincono assai di più.