La serie Chernobyl prodotta da HBO sta avendo molto successo. I cinque episodi scritti da Craig Mazin e diretti da Johan Renck hanno occupato lo spazio lasciato vuoto tra il pubblico da Game of Thrones. La passione per ciò che è accaduto nel reattore nucleare ha generato uno strano turismo della catastrofe. Chernobyl è molto più di un disastro nucleare. L’incidente del 1986, la catena di decisioni prese, la reazione del potere sovietico, la risposta degli scienziati e della popolazione ci parlano del rischio dell’energia nucleare, ma anche di fede e realtà, di una realtà negata, e di un pensiero, di una credenza che ha costruito/costruisce un sistema contro l’esperienza.
Siamo attratti dalla serie perché in questi tempi di paura e incertezza mostra le conseguenze di un uso imprudente della tecnologia. Effetti che si estendono nel tempo al di là di ciò che si può immaginare. Non è solo il terrore dell’atomo. La finzione dà forma a quel fantasma della società del rischio che portiamo nell’anima e che può avere mille modi di materializzarsi. La paura è dentro di noi e proviamo una certa affinità per le storie che alimentano ciò che il sociologo Luhmann chiamava “la stravagante preoccupazione per le improbabilità estreme”. È improbabile un’invasione di migranti, una morte per epidemia generalizzata, una guerra violenta su tutto il pianeta. Ma le distopie cinematografiche che insistono su mondi creati da eventi di questo tipo prosperano.
Ci sono state alcune critiche a Chernobyl perché non mostra adeguatamente come funzionava il potere sovietico a metà degli anni ’80. Probabilmente non si può chiedere a una serie tv di descrivere qualcosa che non sia solo un conflitto tra verità e bugie, o tra esperti e burocrati. I privilegi delle autorità, la scarsa stima per la vita umana e l’abuso dello Stato hanno segnato la reazione alla crisi. Ma il caso di Chernobyl è più di questo. È il momento in cui lo scontro tra la fede dell’uomo sovietico e la realtà diventa evidente. Ecco perché è così attuale. Ed è per questo che dobbiamo tornare a leggere “Preghiera per Chernobyl”. Con l’imponente mosaico di testimonianze che Svetlana Aleksievic costruisce, in cui appare la vita reale, l’amore, la sofferenza di chi ha vissuto l’incidente e di coloro che hanno lavorato vicino alla centrale, si capisce perché, come dice uno dei protagonisti, quello che è successo è servito a “imparare a dire io”.
Il monologo di Marat Filipovich, ex ingegnere dell’Istituto di energia nucleare, mostra il sistema della “doppia verità” in cui si viveva e che assomiglia, anche se siamo in società libere, al nostro. Il problema era la fede, una fede senza alcuna base nella realtà. Marat cammina attraverso l’area colpita dalle radiazioni e rimane scioccato: “Prendevamo un salame, un uovo… li passavamo ai raggi X: non erano cibo, erano rifiuti radioattivi”. Chiede poi cosa può fare e gli viene detto di fare le rilevazioni e guardare la televisione. E in televisione ascolta Gorbaciov che gli dice che sono state prese misure urgenti. “Io, un ingegnere, con 20 anni di esperienza, buon conoscitore delle leggi della fisica, gli ho creduto”, spiega Marat.
Tutta la sua esperienza di ingegnere gli diceva che l’area doveva essere evacuata, il suo lavoro sul campo gli mostrava che l’area non era stata evacuata. Eppure credeva a Gorbaciov. Perché “si era abituati a credere”, a vivere in una convinzione che dissociava l’esperienza dal pensiero. “Non ricordo nessuno dei nostri lavoratori che rifiutava di recarsi nella zona”, aggiunge. E lo facevano non per paura di essere espulsi dal Partito, ma per le loro convinzioni. “Prima di tutto, c’era la certezza che vivevamo in un mondo bello e giusto, e che l’uomo era al di sopra di tutto, perché rappresenta la misura di tutte le cose Per molti, il crollo di queste convinzioni ha portato a un attacco di cuore o a un suicidio”.
Sono trascorsi più di 30 anni dall’incidente, l’homo sovieticus si è completamente estinto, ma resta in piedi il mondo liberale, un sistema di credenze che censura la realtà reale. Per questo è sempre interessante trovare persone come la regista cinematografica Isabel Coixet che, riferendosi al suo ultimo lavoro, dice: “Quando sto girando, c’è un momento magico in cui tutto sembra funzionare e senti che la macchina da presa cattura qualcosa di intangibile, una corrente d’amore che ha a che fare con la chimica e persino con la metafisica. Pochi minuti dopo, mi rendo conto che è stato un miraggio e che devo continuare a cercare di catturare qualcosa che è forse irraggiungibile: la realtà in tutti i suoi strati, complessa, inafferrabile, complicata, ricca, dura”. Qualsiasi certezza che non provenga da questa tensione per quella realtà che Coixet chiama “inafferrabile” non ti aiuterà a dire io.