La povertà assoluta resta invariata in Italia. Secondo i dati dell’Istat, relativi al 2018, le famiglie in tale condizione sono oltre 1,8 milioni, con un’incidenza pari al 7%, per un numero complessivo di 5 milioni di individui (8,4% del totale). Le famiglie in condizioni di povertà relativa, invece, sono poco più di 3 milioni (11,8%), quasi 9 milioni di persone (15% del totale). “La mia impressione è che questi dati confermino la situazione di stagnazione del Paese, oltre che di disuguaglianza, e che l’Italia stia diventando mediamente più povera. Come sempre, le categorie giovani e più deboli sono colpite in modo sproporzionato”, è il commento di Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano.
Vede una conferma della stagnazione nel fatto che il dato sulla povertà non migliora rispetto allo scorso anno?
Esatto. Non c’è ormai da anni un segno di miglioramento. Questo è l’elemento che deve far riflettere. Abbiamo un quadro statistico che conferma in tutto e per tutto una situazione ben nota: una disparità nord-sud, una differenza per tipologia familiare, il fatto che come ordine di grandezza il dato sulla povertà è rimasto inchiodato e sempre iperconcentrato sui disoccupati. Proprio questi disoccupati poveri sono lì a a confermare la situazione di stagnazione.
Proprio per affrontare questa situazione è stata però messa in campo una misura come il reddito di cittadinanza…
Passando dall’analisi alle policy eviterei, com’è stato purtroppo fatto, una traduzione meccanica dei numeri Istat in azione politica. Perché, pur essendo questa indagine particolarmente accurata e ben fatta, non coglie un dato che è centrale per capire problemi come questi, cioè la grande e fortissima eterogeneità delle situazioni familiari e personali. Non è possibile coglierlo dal centro e nemmeno si può acquisire senza un’esperienza. Questo non vuol dire che la povertà non si possa contrastare.
In che senso professore?
Credo che in questo campo le politiche, se non sono decentrate, rischiano di creare inevitabilmente delle situazioni anomale. Io, per esempio, ho in mente l’esperienza di Caritas a Milano e devo dire che non ho mai visto una struttura così dedicata, curata, che cerca di minimizzare il rischio di sprecare anche un solo centesimo, ma che allo stesso tempo modula l’intervento, all’inizio come sostegno al reddito, poi come sforzo per l’inserimento al lavoro, in maniera mirata e decentrata.
Per dare una scossa all’economia, il Governo sembra voler puntare su due strumenti: flat tax per aumentare Pil e occupazione; salario minimo per fare in modo che il lavoro sia adeguatamente retribuito. Cosa ne pensa?
Io vedo dei benefici nel salario minimo, ma mi rendo conto che è importante la tempistica. Se fatto subito può avere effetto positivo, altrimenti rischia di arrivare troppo tardi. È in ogni caso importante che venga integrato con tutto il sistema legato a un minimo contrattuale, che ha dentro ferie, malattia, previdenza, ecc. Ogni Paese ha individuato le modalità più appropriate per introdurre un salario minimo e raccordarlo con la contrattazione nazionale: anche l’Italia può trovare le sue.
E della flat tax cosa pensa?
È chiaro che, come si usa dire, mettere più soldi in tasca agli italiani può dare respiro all’economia, ma, anche dal punto di vista dei rapporti con Bruxelles, mi domando: è più efficace introdurre la flat tax o accelerare i provvedimenti che sblocchino i cantieri, aumentino gli investimenti pubblici, diminuiscano la burocrazia, in maniera tale che si arrivi a creare un circolo virtuoso: creare nuovi posti di lavoro che portano a più redditi, più consumi e quindi alla ripartenza dell’economia? Senza dimenticare che parlare di una riduzione fiscale vuol dire immaginare un ridisegno complessivo delle imposte, perché ci sono anche le clausole di salvaguardia.
Cosa intende dire?
Quando parliamo di flat tax parliamo di imposte dirette, ma cosa facciamo con quelle indirette, come l’Iva? Per me è più utile chiedersi: esiste una modalità con cui diventa più forte la posizione italiana con Bruxelles e più efficace l’operazione di aumentare i redditi, tenendo conto però anche dei disoccupati?
Ed esiste questa modalità?
Secondo me sì, con gli investimenti pubblici, che creano lavoro. Occorre un intervento all’altezza di una crisi ormai decennale, indipendentemente da quello che si dice a Bruxelles. Certamente è più difficile obiettare a una politica di investimenti, di cui più volte si è parlato in ambito europeo, che non a una diminuzione delle aliquote fiscali.
Pensando all’attuale situazione di stagnazione dell’Italia, ritiene che sia anche responsabilità dell’Europa?
L’Italia ha la responsabilità di un terzo della situazione, l’Europa di due terzi. Perché dal 2000 al 2008 eravamo cresciuti, ma oggi stiamo peggio rispetto ad allora. Quando è arrivata la botta della crisi, noi abbiamo avuto due-tre anni in cui Trichet ha voluto seguire l’onda di chi teorizzava l’austerità espansiva. Questo mentre negli Usa si faceva l’opposto. Poi è arrivato Draghi, ma era troppo tardi. C’è stata un’incompetenza di partenza nel non capire che eravamo, come Europa, in una situazione critica. Ci si dimentica troppo spesso che prima del 2008 il nostro rapporto debito/Pil era sotto il 100%. Non è che negli anni successivi gli italiani sono impazziti. Quello che voglio dire è che quelle regole che l’Europa si è data, nessuno negli Usa si sarebbe mai sognato di introdurle.
Oggi l’Europa potrebbe far peggiorare la nostra situazione?
Se viene mantenuto l’attuale atteggiamento nei nostri confronti credo che si possa innescare un gioco pericoloso, non solo per noi. Mettere “sotto tutela” l’Italia sarebbe un atto veramente molto grave perché siamo uno dei Paesi fondatori. Avrebbe conseguenze che non voglio immaginare. Spero che prevalga il buon senso. L’effettivo avvio di una procedura d’infrazione con un voto di altri paesi europei può essere davvero molto pericoloso per tutta l’Ue.
(Lorenzo Torrisi)