Non è facile parlare della maturità e non essere banali. Troppi film, troppe canzoni, troppi miti hanno spiegato ai ragazzi come devono essere e come devono sentirsi in un giorno così decisivo per la loro vita. In questo modo ogni ulteriore parola rischia di essere l’ennesimo verso che si aggiunge ad una liturgia già scontata e nota.
Eppure il giorno della maturità, dell’esame di Stato, si prova un’emozione unica, particolare, che ha attraversato il cuore di chi portava una materia e un’altra gli veniva assegnata, di chi studiava quattro materie, di chi ha vissuto gli anni della terza prova, dei commissari tutti interni, dei commissari tutti esterni, dei tre interni e dei tre esterni: un’emozione che non dipende dalla legge, ma dalla coscienza che – misteriosamente – in questo giorno segna tutti, la coscienza che quello che sta accadendo ora, proprio ora, ha a che fare con un punto di non ritorno, un punto che è destinato a cambiare la vita per sempre.
Questo punto è la percezione, quasi fisica, che le cose devono finire per crescere, che nella vita occorre lasciare per diventare grandi.
Sono arrivati alle superiori poco più che bambini, convinti di sapere molto se non tutto, ma poi hanno dovuto lottare, soffrire, scoprire i limiti dei loro genitori, imparare ad amare e ad essere rifiutati, toccare con mano la delusione e l’ingiustizia, perseguire lo sballo per dimenticare le lacrime, sentire la rabbia e la violenza come unica strada per gridare al mondo il proprio diritto di esistere e di valere. E così hanno sognato, hanno sbagliato, hanno scoperto l’amore, il sesso, le paure, le attese. Hanno incontrato le ombre più buie e le strade più luminose, si sono sentiti soli o onnipotenti, tristi o capaci di fregare tutto, anche la sofferenza, anche la morte.
E adesso, mentre escono di fretta senza dimenticare la carta di identità, si rendono conto che quella foto è di un altro, di uno che non aveva ancora visto tutto quello che li avrebbe resi così strani, eppure così veri. S’impara che tutto quello che sembra per sempre in realtà è sempre un inizio, si avvicendano nella mente odori, notti insonni, docenti amati e docenti odiati, voglia di futuro ma terribilmente arrabbiati di dover perdere il passato.
Il giorno della maturità i ragazzi non pensano al tema, alle buste dell’orale, ai powerpoint o al dizionario: il giorno della maturità i ragazzi si vedono la loro vita passare davanti in un solo istante. E, chissà come e perché, avvertono una nostalgia che è gratitudine, una melanconia che è profezia di quel che sarà. Chiudono per sempre la loro infanzia, ma hanno paura di dimenticare il bambino che sono stati. Non si sentono all’altezza, ma sanno che questo è il loro momento.
E tu, che sei l’adulto e che dovresti essere quello saggio, quello vero, sai che non puoi farci niente, che se ne devono andare. Perché l’esame non è una prova la cui somma fa cento, ma un grande saluto, un grande congedo da ciò che siamo stati. E che, mi dicono sia impopolare dirlo, in fondo ci ha reso davvero felici. Più felici di qualunque sbronza, più felici di qualunque donna. Perché ci ha ricordato, in modo strano e insopportabile, che la vita è una promessa e che, se siamo al mondo, un motivo c’è, una ragione esiste.
Chi entra in aula per fare la maturità sa benissimo che quello non è solo un esame, bensì il momento di iniziare a dire grazie, a dire “Io”. Il momento di permettere alla vita di essere quello che è: attesa e Mistero. Consapevoli che tutto ciò che c’è, e che accade, è sempre soltanto una proposta, è sempre soltanto un inizio.