Le banche centrali hanno deciso che il mondo ha di nuovo bisogno di tassi in ribasso per contrastare la crisi che continua a mordere undici anni dopo il collasso di Lehman Brothers. La Banca centrale europea, dopo sei mesi dalla fine del Qe, è stata costretta a ritornare sui suoi passi. La Fed ha deciso di tagliare i tassi per la prima volta dal 2008. Nel frattempo, finisce nel cassetto l’operazione di riduzione del bilancio della banca centrale. Con l’eccezione dei Paesi scandinavi, tutte le autorità monetarie hanno dovuto prendere atto che l’economia non è in grado di procedere a ritmi normali. O, forse, la nuova normalità è fatta di tassi di crescita più modesti a fronte di un’inflazione ridotta al lumicino per cause che, tutto sommato, restano sconosciute.
E così, un po’ ovunque, si prende atto che non funziona più la curva di Philips: l’aumento dell’occupazione, per ora, non genera aumenti di salari, così come prevedeva l’economista. Vale per l’Italia, ma anche per economie più avanzate dove l’aumento dei prezzi e del tenore di vita riguarda solo una minoranza di lavoratori ad alta qualifica. In questa cornice, dove latita la crescita, i tassi bassi rappresentano sempre meno una terapia, semmai una cura palliativa per evitare il tracollo.
Gli asset finanziari vivono e continueranno a vivere nel loro nirvana. Le valutazioni dei mercati sono alte, i tassi negativi, gli utili hanno finito di salire e tutto sta su perché è obbligato a stare su. Ma la situazione, naturalmente, è diversa da Paese a Paese. Prendiamo la Germania. Si può comprare un Bund decennale e prepararsi a perdere, da qui a dieci anni, il 23% del potere di acquisto (inflazione tedesca al 2%, rendimento 0,3% negativo). Non è una prospettiva esaltante, ma in assenza di inflazione l’unica arma a disposizione per sostenere un ciclo espansivo che dura da dieci anni è la medicina monetaria.
Per paradosso, va meglio alla Francia. I titoli decennali rendono poco meno di zero, garantendo a Emmanuel Macron lo spazio per una seppur limitata politica espansiva nonostante l’aumento del debito rispetto al Pil, comunque sotto la soglia del 100%.
E l’Italia? Il beneficio del calo dei tassi, pur necessario, non è sufficiente a ridare ossigeno all’economia e a rilanciare gli investimenti. Semmai gli operatori internazionali sono ingolositi dai rendimenti positivi (solo Italia e Grecia pagano un interesse sui titoli a 5 e a 10 anni) a fronte di un rischio default per ora modesto: l’Italia, si dice, potrà far fronte alle sue obbligazioni con una patrimoniale. Il basso costo del denaro da solo serve a mantenere sotto controllo il deficit, ma non il debito che, per effetto della mancata crescita, tende a salire sempre di più. Di qui la tentazione di effettuare il make up ai conti per presentare una situazione solo in apparenza in via di miglioramento.
Si spiega così la bizzarra decisione di procedere in casa Cdp, su richiesta dell’azionista di controllo, cioè il Tesoro, alla distribuzione di riserve di utili portati a nuovo per un ammontare complessivo di poco meno di un miliardo di euro. Una mossa pericolosa, perché quei soldi, accantonati appena un mese addietro, servono a sostenere il piano industriale della Cassa, una delle carte migliori per tentare una ripresa. Non è bello che questi quattrini debbano essere sacrificati per ridurre il deficit, com’è previsto dalla Commissione europea. E così, anche con il denaro quasi gratis, l’Italia assomiglia a una navicella in mezzo alla tempesta che butta a mare, pur di galleggiare, il carico che dovrà garantirci il futuro. E non è colpa del destino o di terzi.