Da molte fonti di stampa arriva la conferma che realmente un giudice britannico avrebbe ordinato l’interruzione di gravidanza per una giovane donna cattolica, incinta di ventidue settimane. La donna soffrirebbe di problemi psichici tali che l’interruzione sarebbe “nel suo migliore interesse”: sottrarre dalle sue cure il figlio già nato determinerebbe per la giovane mamma un dramma ben più grande che l’aborto.
I fatti appaiono sconcertanti, non solo per l’impressionante intromissione di uno Stato nelle libere scelte di una persona, ma anche per la totale assenza di riflessione sull’altro “miglior interesse” che occorrerebbe quanto meno considerare, ovvero quello del bambino.
Tuttavia la questione va oltre. Fa parte della serietà di una buona stampa non avventurarsi oltre in questa storia, avendo a disposizione pochi e generici dettagli che potrebbero non essere sufficienti a valutare con contezza ogni aspetto. Eppure la vicenda suscita almeno due considerazioni a prescindere che è corretto proporre all’attenzione di quanti non ricerchino nella realtà conferme alle proprie idee, ma vogliano davvero capire e mettersi in discussione.
La prima considerazione riguarda la domanda circa la paternità e la maternità: di chi è ogni figlio che nasce? Un bambino non è mai una proprietà, non è mai un “bene a disposizione”, bensì è una responsabilità offerta ad un’intera comunità, ad un intero villaggio. Aver ridotto l’aborto ad una questione privata implica aver escluso la comunità in cui il bimbo viene al mondo dalla responsabilità di crescerlo. Dire che una donna non deve partorire significa, anzitutto, ammettere che non esista una comunità che possa farsi carico di quel bambino. La domanda drammatica sorge qui: e se fosse vero? Se fosse vero che non esiste più una comunità – e quindi un soggetto – capace di assumersi una responsabilità educativa?
Secoli di esasperato individualismo, di lenta affermazione della mentalità capitalista e dell’etica protestante hanno prodotto la narcosi del sistema comunitario. Quello che oggi manca è la comunità. E la comunità manca perché manca l’Io. E l’Io manca perché la massificazione della società ne ha ridotto il desiderio: capitalismo e comunismo hanno azzerato, l’uno in nome della libertà e l’altro della giustizia, la dimensione religiosa dell’Io, quella dimensione che lo rende unico rispetto alla massa e lo pone nella storia come protagonista, costruttore di legami e di vera comunità. Anche nel mondo cattolico si tende a confondere la comunità con il gruppo, il clan, l’enclave, la lobby: tutto questo è deleterio perché impedisce il ri-sorgere nella storia di una realtà di popolo vera in nome dell’eterno perpetuarsi e attualizzarsi di un vecchio schema, di un vecchio ricordo.
Il giudice britannico, in poche parole, dice, naturalmente senza volerlo dire, una cosa terribilmente vera: siamo così massa, così gruppo, da non essere più comunità capace di cura verso i minori. Non è a mio parere un caso che questa sia l’epoca degli abusi: infatti senza un fenomeno comunitario l’unica dinamica relazionale che anima i rapporti educativi può essere solo la violenza, violenza di coscienza, di potere e sessuale.
C’è infine un ultimo punto che merita di essere sottolineato in questa vicenda: lo stigma di cui godono tutti coloro che sono passati per complesse vicende psicologiche e psichiatriche. Il punto non è tanto il dato scientifico, che in una persona che è stata o è malata c’è, bensì l’idea di poterlo conoscere, di sapere già come si svilupperà. Oggi si dice: questa donna, per il disturbo che ha, vivrebbe la gravidanza e l’affido come un trauma superiore all’aborto. Ma che ne sa la scienza, certa psicologia e psichiatria, di come quella mente che loro esplorano – e che a loro stessi è mistero – reagirebbe?
È qui c’è l’altro elemento che, insieme alla comunità, è messo in dubbio: il mistero della libertà, la coscienza del singolo. Una coscienza ridotta a fattore noto e omologato a quella altrui: non c’è spazio per imprevisti, non c’è spazio per novità, non c’è spazio per sorprese.
Non sappiamo molto di tutta questa storia. Quel che sappiamo è che l’assenza di un contesto comunitario, e l’esclusione della categoria “mistero” dalla comprensione dell’Io, aprono la strada alla morte. Ad un’invasione di campo che è, al contempo, una forma di violenza e un’ammissione di impotenza. Come se ormai, date siffatte premesse, il cuore dell’uomo fosse perduto. O, quanto meno, non più raggiungibile.