Ciò che la scienza scopre sulla realtà fisica supera di gran lunga ciò che anche le menti più fantasiose sono riuscite a immaginare.Più facile è anticipare macchinari e strumenti tecnologici, anche se nessun autore di fantascienza è mai riuscito a spiegare il funzionamento delle meravigliose invenzioni che ha immaginato.E c’è una ragione: per comprendere come funziona la realtà naturale non basta l’immaginazione basata sull’esperienza quotidiana, ci vuole il metodo sperimentale.
Quando ho proposto come tema dell’anno per Emmeciquadro quello della realtà che supera l’immaginazione uno degli amici della redazione, Renzo Gorla, mi ha scritto un sms, un po’ scherzoso e un po’ no, in cui mi chiedeva perché allora mi interessa tanto la fantascienza, al punto da tenere addirittura un corso su di essa nella mia Università di Varese.
Non mi ricordo bene cosa gli ho risposto sul momento, ma poi, riflettendoci meglio, mi sono reso conto che la questione è molto più interessante di quanto mi era sembrato a prima vista e può darci un punto di vista molto utile per affrontare tutta la questione.
Sarebbe facile, infatti, stilare un elenco di tutte le meraviglie che la scienza moderna ci ha fatto conoscere e che prima non erano neanche immaginabili: dai paradossi quantistici allo spazio curvo, dall’energia del vuoto al Big Bang, dai dinosauri ai frattali, dai quark al bosone di Higgs, c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Facile, ma forse non molto utile: più interessante mi sembra invece cercare di capire perché ciò che andiamo scoprendo sulla realtà fisica supera di gran lunga ciò che riusciamo a immaginare riguardo ad essa. E, come dicevo, la fantascienza ci può dare un buon punto di partenza.
Fantascienza o fantatecnologia?
In effetti nella fantascienza c’è un po’ di tutto e, a dispetto del nome, la maggior parte dei racconti e dei film del genere non è affatto interessata alla scienza, che usa come mero pretesto per raccontare storie di avventura, senza minimamente preoccuparsi della natura dei “gadget” scientifico-tecnologici che mette in mostra, che vengono semplicemente dati per scontati, senza neanche tentare di spiegare come funzionerebbero oppure fornendo spiegazioni demenziali inventate sui due piedi o, peggio ancora, soprattutto ai giorni nostri, ricavate dalla pseudoscienza che dilaga sempre più spesso in Internet, con gli esiti nefasti che abbiamo sotto gli occhi e di cui ho già scritto più volte, anche sul n° 49 – Giugno 2013 di Emmeciquadro.
Esiste tuttavia una parte di essa, largamente minoritaria, ma che ha prodotto molte delle opere di maggior pregio, in cui gli autori si sforzano invece di immaginare degli scenari avveniristici che però abbiano anche un certo grado di plausibilità: è questa la cosiddetta “fantascienza di anticipazione”, il cui pioniere è in genere considerato Jules Verne e che annovera tra i suoi rappresentanti più illustri autori quasi mitici, come Herbert G. Wells, Isaac Asimov e Arthur C. Clarke, gli ultimi due dei quali erano anche scienziati (Clarke, tra l’altro, è stato lo scopritore del concetto di orbita geostazionaria).
Tuttavia – e questa è la domanda davvero interessante – che cosa esattamente cercano di anticipare queste opere? Sorprendentemente, e una volta di più a dispetto del nome, la risposta non è “la scienza”, bensì “la tecnologia”, tanto che, a rigore, la fantascienza dovrebbe chiamarsi, più correttamente, fantatecnologia.
In effetti non esiste praticamente nessuna invenzione di una certa importanza che non sia stata immaginata con decenni e a volte addirittura con secoli di anticipo dalla fantascienza, mentre non esiste praticamente nessuna scoperta scientifica che sia stata anticipata dalla fantascienza stessa.
Per quanto ne so, l’unica (e limitatissima) eccezione è rappresentata dal tentativo di Wells di spiegare il funzionamento della macchina del tempo che compare nel suo omonimo romanzo del 1895 attraverso il concetto di continuum spazio-temporale, che verrà proposto a livello scientifico solo 12 anni dopo, nel 1907, da Hermann Minkowski.
La spiegazione data da Wells è indubbiamente impressionante, perché, a dispetto del fatto che il suo spazio tempo sia ancora “tecnicamente” newtoniano (cioè privo di curvatura), “spiritualmente” è già relativista (o, più esattamente, einsteiniano: spiegherò subito la ragione di questa distinzione), nel suo tentativo di ridurre il tempo a una quarta dimensione spaziale, il che rappresenta la base per giustificare il concetto di viaggio nel tempo, dato che nello spazio si può viaggiare indifferentemente avanti o indietro.
Non si deve però dimenticare che, per quanto nella relatività ci sia realmente un’integrazione molto profonda tra spazio e tempo, il tentativo di Einstein di ridurre completamente il tempo allo spazio si è rivelato impraticabile e con esso anche i viaggi nel tempo (che peraltro lo stesso Einstein, contraddittoriamente, riteneva impossibili, benché fossero una conseguenza logica della riduzione di cui sopra): quindi alla fine anche questa pur geniale intuizione di Wells ha una portata tutto sommato piuttosto limitata.
Invenzioni possibili e impossibili
Quanto detto sopra apre la strada a una domanda ancor più interessante: perché è relativamente facile prevedere le innovazioni tecnologiche, mentre è praticamente impossibile prevedere le scoperte scientifiche?
Credo che la risposta sia abbastanza semplice e consista nel fatto che la tecnologia, in fondo, non è altro che un’estensione delle nostre capacità o un’aggiunta di capacità che non possediamo ma che comunque sono parte della nostra esperienza quotidiana, per cui risulta relativamente facile immaginare almeno le caratteristiche generali dell’oggetto.
Il telescopio e il microscopio sono un’estensione della vista, il telefono, la radio, la televisione e Internet sono un’estensione della parola e dell’udito, le varie macchine per i lavori pesanti sono un’estensione delle nostre braccia, l’automobile e il treno sostituiscono le nostre gambe, la nave è una maniera più efficiente di nuotare, e così via. L’aereo invece ci conferisce una capacità, il volo, che non abbiamo per natura, ma che vediamo costantemente negli uccelli, il sottomarino ci permette di diventare provvisoriamente pesci, eccetera.
Anche quando andiamo su cose più avanzate, che ad oggi non sappiamo nemmeno se siano possibili, come per esempio il teletrasporto o il motore a curvatura di Star Trek, le cose non cambiano di molto, anche se qui ci basiamo su idee tratte da teorie scientifiche. Ma anche queste teorie sono ormai parte della nostra esperienza, se non sensibile, almeno intellettuale. E anche in questi casi ci si limita a proporre, appunto, l’idea generale, mentre per i dettagli ci si rifugia in meri sotterfugi verbali (i “cristalli di litio” del motore a curvatura) o in pseudospiegazioni totalmente impraticabili nel mondo reale (la tecnologia dei “banchi di memoria” del teletrasporto) [1].
La vera difficoltà, quindi, non è tanto immaginare il “cosa”, ma il “come“. E qui casca l’asino: perché infatti, se andiamo a vedere le cose un po’ più da vicino, ci accorgiamo facilmente che in realtà nessun autore di fantascienza è mai riuscito a spiegare in modo neanche approssimativamente corretto il funzionamento delle meravigliose invenzioni che ha immaginato. Ma questo non è un limite degli autori di fantascienza in quanto tali: infatti non ci riescono neanche gli scienziati.
L’esempio più clamoroso e più conosciuto è quello delle celeberrime “invenzioni impossibili” di Leonardo da Vinci, che in effetti, come sostengo ormai da molti anni, invenzioni non sono, ma piuttosto immaginazioni, esattamente come quelle della fantascienza, dato che i principi fisici su cui si basano sono completamente sbagliati: in che senso, quindi, si potrebbe parlare di “invenzione” a proposito di una macchina che non solo non funziona, ma non può funzionare?
Con tutto il rispetto per il grande genio di cui celebriamo quest’anno il cinquecentenario della morte, più che un precursore della scienza moderna mi sembra più corretto considerarlo il vero capostipite della fantascienza o, per meglio dire, della fantatecnologia di anticipazione.
“Intender perfettamente una sola cosa”
Questo ci conduce a una terza e ultima domanda: perché immaginare come una certa cosa funziona è così difficile, benché immaginare la cosa stessa sia relativamente facile? Anche questa volta la risposta è relativamente semplice, direi quasi banale, ma le conseguenze non lo sono affatto.
Il motivo, infatti, è semplicemente che le leggi che determinano il funzionamento della natura non sono accessibili a partire dalla nostra esperienza quotidiana, se non in minima parte. E anche in quest’ultimo caso l’esperienza da sola non è sufficiente, perché per immaginare la forma generale di una cosa può bastare un’idea approssimativa, ricavata per analogia da cose simili, ma per farla funzionare davvero occorre invece una conoscenza estremamente precisa, come spiega questo splendido passo di Galileo: «Estrema temerità mi è parsa sempre quella di coloro che voglion far la capacità umana misura di quanto possa e sappia operar la natura, dove che, all’incontro, non è effetto alcuno in natura, per minimo che sia, all’intera cognizion del quale possano arrivare i più speculativi ingegni. Questa così vana prosunzione d’intendere il tutto non può aver principio da altro che dal non avere inteso mai nulla, perché, quando altri avesse esperimentato una volta sola a intender perfettamente una sola cosa ed avesse gustato veramente come è fatto il sapere, conoscerebbe come dell’infinità dell’altre conclusioni niuna ne intende». [2]
Per giungere a “intender perfettamente” anche “una sola cosa” è infatti necessario il metodo sperimentale, inventato per l’appunto da Galileo, che comincia a studiare quelle poche proprietà e leggi che sono accessibili attraverso la nostra esperienza diretta per poi procedere, un passo alla volta, basandosi sulle cose scoperte e su quelle costruite a partire da queste prime conoscenze, verso altre conoscenze sempre più profonde. È per questo che il vero padre della scienza è Galileo e non Leonardo.
Ed è sempre per questo che neanche gli scienziati più grandi sono in grado fare ipotesi sensate circa le leggi di natura, se non a una distanza molto breve da quelle che già sono state scoperte, e anche qui sempre con un elevato tasso di fallibilità.
Tuttavia, se si ha l’umiltà di frenare il nostro naturale impulso a voler “intendere il tutto” e si ha la pazienza di percorrere passo per passo questo cammino, più lento ma più solido, si sarà ampiamente ricompensati, perché non solo ci si accorgerà che questo progresso verso conoscenze sempre più profonde è possibile, ma altresì che tali conoscenze sempre più profonde sono anche sempre più strane e affascinanti, come la storia della scienza ci ha ampiamente dimostrato. [3] Molto più strane e molto più affascinanti, in verità, non solo di quelle immaginate dalla fantascienza, ma anche di quelle ipotizzate dalla scienza pregalileiana, nonché, ça va sans dire, di quelle vaneggiate dalla pseudoscienza internettiana.
E allora, davanti all’evidenza di un universo strutturato con tale intelligenza e astuzia che supera da ogni parte la nostra immaginazione, ma al tempo stesso anche con tale condiscendenza e magnanimità che ci permette di conoscerlo fin nei minimi dettagli e con una precisione strabiliante, non può che sorgere la domanda su quale possa essere la sorgente ultima di tutto ciò. E benché la scienza da sola non possa certo rispondere a una tale domanda, altrettanto certamente essa può aiutarci almeno a porla con maggiore profondità, consapevolezza e potenza.
Paolo Musso(Professore Associato di Filosofia Teoretica presso l’Università dell’Insubria di Varese – Corso di laurea in Scienze della Comunicazione)Note:[1]
Lawrence Krauss, La fisica di Star Trek, Longanesi 1996.
[2] Galileo Galilei, Dialogo sopra i massimi sistemi, in Opere, VII, pp. 126-127.
[3] Per chi volesse approfondire rimando al mio libro La scienza e l’idea di ragione (Mimesis 2011), di cui sta per uscire la seconda edizione completamente rivista e ampliata.