Per come si sta mettendo la faccenda dell’ex Ilva di Taranto ci saranno pochi vincitori e molti vinti. Ed è difficile pensare che i pochi vincitori potranno essere ammessi tra i giusti mentre i molti vinti avranno dalla loro parte mille buone ragioni ma non la sorte amica. Insomma, quello che sta accadendo alla più grande acciaieria d’Europa è la triste cronaca di una chiusura annunciata.
Annunciata ma non officiata. E dunque c’è ancora tempo – poco e sempre meno – per evitare l’abbandono del sito con tutto quello che potrebbe conseguire per l’economia della regione e del Paese. Perché un impianto come quello pugliese, che con l’ingresso degli indiani di ArcelorMittal promette di diventare il più moderno e sostenibile d’Europa, una volta perso non si recupera più.
Dovrebbe far riflettere la sorte dell’Italsider di Bagnoli, che dopo quarant’anni dalla chiusura non ha nemmeno completato la bonifica dei suoli. Inanellando nel frattempo una lunga serie di magre figure, nazionali e internazionali, punteggiate da inchieste della magistratura, sequestri di suoli, scandali di vario genere e, quel che è peggio, con la distruzione di una classe operaia presidio di legalità.
Quel che resta al posto delle ciminiere sono ruderi che gridano vendetta contro la stupidità degli uomini che hanno ben imparato a distruggere senza saper ricostruire. L’alternativa all’altoforno è un’immensa distesa di sabbia ancora inquinata, palazzine diroccate, edifici realizzati nel frattempo senza logica e già rovinati dall’incuria, tanti progetti (alcuni strampalati) e altrettanti sogni infranti.
Ma non è detto che debba andare sempre così. Se a Napoli si è esagerato in insipienza e mascalzoneria, a Taranto la storia potrebbe avere un finale diverso. Ma il sospetto che il copione possa ripetersi è molto forte anche perché non si vedono all’orizzonte soluzioni convincenti e quel che si prospetta non conforta. A rischio ci sono 14.000 posti di lavoro. In un Mezzogiorno che langue.
Certo, c’è di mezzo la salute dei cittadini e su questo non si scherza. Ma il piano di recupero ambientale proposto dagli acquirenti e accettato dal Governo mira proprio a far rientrare nella norma le emissioni che, in questo modo, non saranno più dannose. Si obietta che c’è bisogno di qualche anno perché il programma vada in porto e intanto il male continua a diffondersi.
Per quanto sia duro ammetterlo, l’unico risanamento possibile è quello che si può compiere in corso d’opera. E togliere l’immunità penale agli amministratori dello stabilimento intanto che l’area sia messa a posto vuol dire esporli al rischio del carcere. La tentazione di mollare è palpabile. Portandosi via 5 miliardi d’investimenti, il rilancio produttivo ed ecologico della fabbrica, la tenuta dell’occupazione. Senza contare le ricadute negative sull’apparato industriale del Paese (che perderebbe il suo maggior fornitore di acciaio: una funzione strategica in una dimensione manifatturiera), la figuraccia internazionale per il mancato rispetto dei patti, la fuga dei capitali. Tutte conseguenze che non possiamo permetterci di sostenere e che minerebbero alla base la credibilità della nazione.
Tanto più che si vorrebbe far pagare agli acquirenti di oggi i disastri del passato: compiuti in buona misura proprio dallo Stato o dallo Stato per molto tempo tollerati. Rischiare d’interrompere adesso l’unico processo che punta a salvaguardare l’aria che si respira e il bene che si produce non è quel che si dice una scelta lungimirante. E l’interesse sotteso non assomiglia neanche un poco a quello generale.