Snodo davvero interessante quello che ci troviamo di fronte questo fine settimana. Domenica, infatti, i cittadini greci sono chiamati alle urne per le elezioni legislative anticipate, convocate giocoforza da Alexis Tsipras dopo il ben poco lusinghiero risultato ottenuto da Syriza alle europee. Stando a tutti i sondaggi sarà il centrodestra di Nuova Democrazia ad aggiudicarsi la maggioranza dei seggi, spalancando la strada a quattro anni di governo capitanato dal suo leader, Kyriakos Mitsotakis, e chiudendo l’esperienza populista ellenica, nata dalla crisi economica del Paese. Uno snodo, appunto. Perché le urne capitano in un momento come quello rappresentato da questo grafico, il quale ci mostra come il combinato congiunto di fuga di massa verso l’obbligazionario (percepito follemente come bene rifugio dai rischi connessi a crolli delle equities) e certezza di un nuovo Qe da parte della Bce hanno permesso l’esplosione di un mondo di unicorni.
I rendimenti obbligazionari sovrani sono precipitati ovunque nell’eurozona, legandosi a un carro che è globale, dal Giappone ormai sotto zero con l’85% del suo intero spettro di carta governativa fino agli Usa, con i Treasuries a 10 anni sotto il 2%. Ovunque, si comprano bond. Ecco il risultato. I “grandi malati” o presunti tali sono tutti guariti, una sorta di ossimoro da epidemia miracolosa. Ma, purtroppo, non vera. O, almeno, non del tutto. Perché il rischio enorme, oggi, è quello di sottovalutare i rischi, facendosi forti dello schermo offerto da Mario Draghi e dalla scelta di Christine Lagarde come suo successore, di fatto una colomba che per nessuna ragione al mondo arriverà all’Eurotower con l’intenzione di mettere mano alla forward guidance appena ritoccata dal board. E in base alla quale i tassi non solo non si muoveranno da dove sono almeno fino al settembre 2020, ma, ormai con certezza, scenderanno in negativo anche sui riferimenti benchmark, non solo sul tasso di deposito che già oggi è al -0,40%.
Già, perché giovedì, per la prima volta in assoluto, il rendimento del Bund tedesco a 10 è sceso in territorio negativo oltre quel limite imposto dalla Bce sui depositi overnight: cosa significa? Semplice, in parole povere il mercato ha prezzato chiaramente un taglio dei tassi di almeno 10 punti base al meeting di settembre. Certo, per chi crede che la soluzione di ogni problema sia la politica monetaria espansiva e auspica Banche centrali in modalità prestatore di ultima istanza strutturale e sistemico, quello che stiamo vivendo in questi giorni è il mondo perfetto, l’El Dorado della totale assenza di responsabilità (prima verso i propri cittadini/contribuenti che verso i mercati, sia chiaro) e di conseguenze per il proprio operato. Faccio deficit allegro, tanto la Bce mi schiaccia artificialmente il costo del finanziamento sotto zero. In maniera perenne, non più emergenziale. Il new normal. Un po’ come guadagnare 800 euro al mese, ma vivere come uno che ne incassa 8mila, visto che papà mette a disposizione mensilmente (e a costo zero, quasi senza nemmeno bisogno di dire un grazie) i rimanenti 7.200.
Non a caso, nell’arco di tre giorni si è risolto tutto anche per i nostri conti. Il Governo italiano, rivoluzionario a parole proprio come lo è stato quello di Alexis Tsipras, ha ingoiato tutto intero l’amaro calice delle nomine europee e, miracolosamente, a stretto giro di posta ha ottenuto la sospensione della procedura di infrazione. Ma, siccome la lezione greca è servita a tutti, ecco che giovedì da Bruxelles è arrivata una prima letterina, nella quale – dopo le felicitazioni di rito – i padroni del vapore ci hanno tenuto a farci sapere che i nostri conti resteranno comunque sorvegliati speciali. Insomma, chi aveva creduto alla panzana del 26 maggio che avrebbe cambiato interamente il paradigma europeo, vedendo sbarcare in sede Ue un esercito di sovranisti amici di Roma, dovrà fare un bel bagno di realismo. E in fretta. Per due motivi, contenuti in questi due grafici.
Il primo ci mostra infatti come soltanto il 2 luglio, prima che la partita fra Bruxelles e Roma si chiudesse a tarallucci e vino, il sub-indice che traccia il rischio di Italexit in seno allo Euro Break-up Index di Sentix fosse salito di colpo da dal 6,2% all’8,2%. Nulla di allarmante in sé, visto che i tremori veri si ebbero nel 2016, quando si toccò il massimo storico del 19,4% di possibilità prezzate dal mercato di uscita dell’Italia dall’eurozona, ma, comunque, un chiaro sintomo di percezione degli investitori. Forse auto-alimentante e ricattatorio, ma, comunque, da tenere giocoforza presente, a meno che non si voglia davvero uscire dall’Ue e dall’euro e tentare la strada dell’autarchia debitoria, trasformando Bankitalia nella nuova Bank of Japan.
Il secondo grafico, poi, amplia il quadro di rischio, in vista dell’autunno. Ci mostra come ieri il dato sugli ordinativi manifatturieri tedeschi abbia deluso ben oltre le aspettative i mercati, visto che a fronte di attese per un calo dello 0,2%, la lettura ufficiale è stata di un -2,2% con gli ordinativi esteri a trainare il tonfo. Certo, parliamo della stessa Germania il cui rendimento del titolo decennale era appena andato in negativo oltre il tasso di deposito della Bce, ma questo deve soltanto farci capire quanto la mia preoccupazione sia fondata, rafforzandone i pilastri politici prima che economici: la percezione che abbiamo della realtà è stata totalmente distorta dall’ennesimo intervento salva-vita di Mario Draghi e, complice anche il nostro spread che cala sull’onda di un trend mondiale (il controvalore di debito con rendimento negativo, al mondo, ha raggiunto qualcosa come 13,4 triliardi di dollari, roba da manicomio criminale), rischiamo di pensare che il peggio sia alle porte, che la tanto temuta recessione sia stata evitata o, peggio, sconfitta in anticipo.
Non è così. Non lo è affatto. Perché signori, partiamo da un presupposto. Il rallentamento della crescita globale è palese, ancorché mascherato da mera “conseguenza” della guerra commerciale. Non è vero, è strutturale e figlio di un ciclo sistemico di mal-investment collettivo e mondiale da eccesso di liquidità delle Banche centrali che ora chiede il conto con il più classico dei bust. La guerra Usa-Cina è stato soltanto il maquillage per non ammettere le colpe post-2011, altrimenti certe retoriche sovraniste sarebbero andate palesemente in crisi da contraddizione plastica prima degli appuntamenti che contavano (all’appello, ora, manca però ancora l’alpha, ovvero le presidenziali Usa del 2020). E, quindi, ci vorrà tempo e un doloroso ciclo di ristrutturazione degli eccessi per rivedere un minimo di germoglio di ripresa, reale questa volta.
Peccato che, contestualmente, quando arriverà il crunch e prima che il diluvio monetario faccia ripartire il sistema, dando vita alla grande rotazione dai bond di nuovo dentro le equities, vivremo il normale momento da panic-selling: quando cioè il sistema, totalmente sconnesso dalla realtà, non saprà a quali riferimenti aggrapparsi e andrà in stallo, si congelerà. Pensate che quel momento sarà pericoloso per l’obbligazionario sovrano, per gli spread che torneranno verso livelli più credibili – o, comunque, meno ironici di quelli attuali – di colpo? No, lì agirà lo schermo anticipatorio delle Banche centrali. Sarà il debito corporate, ovunque nel mondo, a trovarsi bloccato, incapace di fare prezzo e trovare dinamiche di trading. Incapace, soprattutto, di trovare compratori. Nonostante il calo di prezzo da svendita.
Sarà l’era glaciale, seppur breve, per la carta privata che finora è circolata come fossero soldi del Monopoli, cui ognuno denominava e auto-certificava il valore e il rating che voleva. Per questo dobbiamo temere il grafico sugli ordinativi tedeschi: perché sarà crisi dell’economia reale, ma attraverso il detonatore della finanziarizzazione. Il peggior combinato congiunto che ci si possa trovare di fronte. La guerra vera inizia solo ora.