Laura Pepe insegna diritto greco all’Università degli Studi di Milano e, accanto alla produzione più strettamente accademica, è autrice di libri di testo in adozione presso i licei italiani e di saggi sulla civiltà classica per un pubblico più ampio. Con Laterza, ad esempio, ha pubblicato il saggio “Gli eroi bevono vino. Il mondo antico in un bicchiere”.
Professoressa Pepe, parafrasando il sottotitolo del volume, quali significati può avere il vino in un bicchiere nel mondo greco?
Moltissimi significati, che ho cercato di condensare nei sei capitoli del mio libro. Il vino era, innanzitutto, uno strumento di solidarietà, grazie al quale si accoglieva un ospite, si rafforzava un rapporto di amicizia o un’alleanza politica. Era ciò che permetteva agli uomini il contatto con le loro divinità. Era il segno di una precisa identità culturale, di contro alla birra, che era bevanda tipica dei barbari. Era il mezzo attraverso il quale l’uomo greco sperimentava la capacità di controllo delle proprie pulsioni e al contempo si abbandonava volentieri all’eccesso. Last but not least, era naturalmente l’alleato più prezioso nelle esperienze amorose.
Il vino è diventato anche simbolo del simposio nel mondo greco e del convivio o banchetto nel mondo romano: ci sono differenze tra questi due popoli in tal senso?
Ce ne sono eccome. Il simposio greco è infatti un rito che esalta e sottolinea l’assoluta uguaglianza dei partecipanti: questi sono tutti equidistanti da un centro in cui è posto il vino – unico, vero protagonista dell’evento –, che viene distribuito a tutti nella stessa misura. Quando il simposio viene conosciuto dai Romani e trapiantato nell’Urbe, diventa qualcosa di completamente diverso: era inevitabile, del resto, visto che la società romana non si fonda sull’uguaglianza, come quella greca, ma al contrario esalta le disuguaglianze sociali. Nel banchetto romano il vino perde la sua centralità, e soprattutto non è più strumento di uguaglianza: agli ospiti di riguardo viene servito vino buono, a quelli meno importanti vino scadente simile ad aceto…
Dioniso è il dio del vino e Bacco è il suo omologo romano: che idea si è fatta di questo dio che viene dall’Oriente, nel corso dei suoi studi?
Dioniso mi è sempre stato molto simpatico. Un sentimento che credo non possa non essere condiviso, visto che l’immagine tipica del dio è quella di un giovane un po’ dinoccolato, che regge in mano la sua immancabile coppa o il suo grappolo d’uva, che incede in modo insicuro per via della sua permanente alterazione alcolica. Bisogna però ricordare che questa immagine è più tipica di Bacco che non di Dioniso, del dio romano che non del dio greco. Quest’ultimo, infatti, era ben più complesso di come le statue e le raffigurazioni pittoriche a noi più familiari lo mostrano. Era infatti un dio che instillava follia nei suo seguaci, che li pervadeva del suo divino entusiasmo, che permetteva loro di regredire a uno stato selvaggio. Era un dio che aveva contatti strettissimi con l’aldilà, che molti avevano respinto, che aveva fatto fatica a farsi accettare, ma il cui culto era stato infine riconosciuto. Un dio dalle infinite sfaccettature e per questo estremamente affascinante, insomma.
È rimasto famoso il decreto romano sui Baccanali: come esperta di diritto antico ci può ricordare brevemente il contenuto e darci una spiegazione?
Il Senatus consultum de Bacchanalibus del 186 a.C. è il decreto a seguito del quale il Senato di Roma – venuto a sapere di alcuni riti notturni non autorizzati che, svolgendosi in nome di Dioniso–Bacco, seminavano scompiglio nella ben ordinata società romana, visto che coinvolgevano indistintamente uomini e donne, liberi e schiavi – decide di abolire i riti in onore del dio, e di eliminare dalla divinità che i Romani veneravano quegli aspetti più torbidi e inquietanti che pure erano tipici del culto originario: non bisogna dimenticare, infatti, che in Grecia Dioniso non è solo il dio della vite e del vino, ma è anche un dio di follia, pericoloso e destabilizzante. Il Senato di Roma fece quel che in genere fa ogni potere centrale di fronte a manifestazioni di cui non comprende la natura, e che per questo ritiene pericolose: le sradicò, nella convinzione – che per il vero non era stata dimostrata con prove certe – che si trattasse di una minaccia allo Stato e alla sua stabilità.
Ci sono analoghi provvedimenti normativi sul vino o su questioni relative nel mondo greco?
Nel mondo greco Dioniso occupava un posto autorevole nel pantheon: una repressione del suo culto o dei suoi riti simile a quella che si ebbe a Roma non era concepibile. I Greci, tuttavia, sapevano bene che il vino, di cui Dioniso era dio, poteva essere pericoloso. E per questa ragione le diverse città-Stato avevano preso provvedimenti contro le ubriacature moleste. La più antica legge di cui siamo a conoscenza è una legge della città di Mitilene, nell’isola di Lesbo, che prevedeva una pena al doppio per colui che commettesse un reato in stato di ebbrezza. Un provvedimento che precede di oltre 2500 anni le attuali norme previste dal Codice della strada per chi guida in preda ai fumi dell’alcool!
Parlare del vino nel mondo greco significa anche parlare del concetto di “xenos” che significa sia “ospite” sia “straniero”. C’è un’affinità antropologica che potrebbe essere evidenziata?
Xenos è un termine a noi familiare soprattutto per via del significato negativo che ha assunto: la nostra società è in buona parte xenofoba, perché ha paura degli stranieri, di chi è diverso, e per questa ragione va respinto. Per i Greci antichi, al contrario, lo xenos era sacro: colui che veniva da fuori, che non faceva parte della collettività, doveva essere accolto; a lui andavano fatti doni che egli avrebbe ricambiato quando il suo attuale ospitante si fosse a sua volta trovato nella condizione di xenos. Non si era “umani” se si veniva meno alla regola non scritta che intimava di accogliere sempre l’ospite. E in questo gioco di accoglienza il vino ha una parte importantissima: lo straniero si trasforma in ospite solo quando gli si mette in mano una coppa di vino.
E gli antichi hanno qualcosa da insegnare a noi moderni in fatto di vino?
Gli antichi hanno sempre qualcosa da insegnarci: naturalmente anche con riguardo al vino. Ci insegnano, per esempio, che bere è un vero e proprio rito, provvisto di una sua intrinseca sacralità. Ci insegnano che eccedere si può, ma a patto che l’ebbrezza non sconfini in luoghi e momenti in cui mostrarla agli altri è disdicevole. Ci insegnano che il vino rivela il carattere di una persona (in vino veritas…). E, dulcis in fundo, ci ricordano che un incontro galante non può essere mai davvero tale se manca il vino…
(Marco Ricucci)