Probabilmente, quanto accaduto lo scorso fine settimana in Grecia verrà descritto nei talk-show – una volta sedimentata la reazione a caldo per il risultato elettorale – come il più clamoroso caso di sindrome di Stoccolma collettiva della storia. Non si spiegherebbe altrimenti, al netto della retorica unilaterale di Atene martirizzata in nome dell’austerity europea, la scelta del popolo ellenico di riportare al potere quel centrodestra che, insieme alla sinistra storica del Pasok, fra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio ha creato le condizioni politiche e finanziarie per la vera e propria Odissea che ha dovuto patire, fra Troika al potere e “salvataggi” internazionali di vario genere e grado.
E poi, se Alexis Tsipras ha salvato la dignità della nazione, tenendo testa agli aguzzini di Bruxelles e Washington, perché è stato spedito a casa in maniera così netta della sua gente, addirittura due volte nell’arco di 45 giorni, prima alle europee e poi alle politiche, diretta conseguenza proprio del tonfo patito da Syriza alle prime? Il potere logora, direte voi. Anche se si governa bene. Anzi, paradossalmente, lo fa proprio se si governa bene. Perché viviamo nel mondo dell’opposizione perenne, dell’opposizione al potere. La quale, essendo incapace di passare dalla denuncia all’azione concreta, continua a comportarsi da pasdaran anti-sistema anche quando diviene essa stessa sistema.
Comodo così, non c’è che dire. Tsipras, invece, nel bene o nel male, ha tentato di governare una situazione difficile, prendendo decisioni scomode. E, anche compiendo dei dietrofront quando necessario, in nome di quella benedetta, sacrosanta e imprenscindibile norma del buongoverno che è la mediazione. Soprattutto quando il tuo antagonista è palesemente più forte di te. Perché la verità non sta quasi mai da una parte sola. E sapete cosa ce lo conferma, plasticamente? La pressoché sparizione dalla scena politica greca di Alba Dorata con i suoi deliri, un segnale che dovrebbe suonare da monito anche a casa nostra, dove grazie al cielo il refrain del “fascismo alle porte” è sparito insieme alle schede elettorali delle europee.
Perché signori, per anni è stato comodo scaricare sull’incapacità della gente di capire la situazione e sulla sua volontà di scegliere la più rapida scorciatoia populista, ma Alba Dorata, di fatto simbolo di ogni sovranismo che si aggira per l’Europa, è stata il corrispettivo politico di quei medici-santoni che promettono di curare il cancro con l’aloe vera e gli impacchi di chiodi di garofano. Ovviamente, tutti sanno che sono dei cialtroni e che serve ben altro per sperare di guarire. Ma quando sei disperato, senza più speranza, deluso da tutto e tutti, le difese immunitarie del buonsenso si abbassano e anche il ciarlatano, per un po’, risulta un premio Nobel. Quando però un minimo di razionalità e speranza tornano a balenare, pur sempre nelle difficoltà, ecco che tutto torna chiaro. E si va di nuovo in ospedale, invece che nell’ambulatorio del truffatore. Ecco, la Grecia rientra appieno in questa metafora. E vale per tutti, dagli Usa di Donald Trump alla Francia di Marine Le Pen, una a cui in condizioni normali non si fa amministrare nemmeno un condominio.
Diversa la questione Lega, perché i numeri di cui gode il ministro Salvini non sono frutto unicamente di disincanto e ribellione, come invece quelli di M5S. Bensì, sommano all’esasperazione post-2008 una base solida di consenso che giunge dal governo di anni, dall’esperienza, dal sentire politico responsabile di un Nord che, da decenni, è ben amministrato a livello locale. E che poco si concilia con certe virate e derive estremistiche, trattandosi di gente che alla mattina alle 7 è già sul posto di lavoro. Ve l’ho detto e lo confermo: l’ubriacatura sovranista sta finendo, ora stiamo patendo i postumi. Forti, come quando si esagera davvero. Ma non letali, né irreversibili, come invece qualcuno voleva farci credere. Gli stessi, ad esempio, che hanno recitato con incauto anticipo il de profundis politico di Angela Merkel ed Emmanuel Macron. Fmi ed Europa hanno esagerato con la Grecia? Indubbiamente. Perché allora l’Europa, formalmente rivoltata come un calzino dalla rivoluzione sovranista, ha scelto l’ex numero uno proprio del Fmi per il ruolo più delicato e importante di tutti, la guida della Bce? Ancora sindrome di Stoccolma, forse? O, forse, la semplice constatazione che i troppi Masaniello in giro sanno soltanto gridare e additare nemici, mostrando lucide ghigliottina, ma, messi alla prova, non sanno tracciare una “o” con un bicchiere, politicamente parlando?
Non dimentichiamo mai una cosa, poi. La Grecia ha subito una cura troppo dura e con tempistiche sbagliate. Ma non è morta. E, soprattutto, alla radice di tutto c’è stata la scelta truffaldina dei politici ellenici di truccare i conti, mettendo a repentaglio la tenuta del sistema interno e di quello europeo. Certamente le banche tedesche e francesi hanno fatto i loro porci comodi, una volta scoppiata la crisi (giova ricordare che non sono delle onlus), ma chi ha creato le condizioni per il caos e per il crollo della fiducia internazionale, primariamente non risiede a Berlino o Parigi. E nemmeno a Madrid o Roma. Ma solo e soltanto ad Atene. Per ruberie varie e politiche clientelari, le stesse di cui molti cittadini greci hanno beneficiato – vedi pensionamenti baby di massa da gridare vendetta, visto che la fiscalità generale copriva tutto con spirito da cicala – senza che avessero nulla da ridire. Quando però è arrivato il conto di quel Bengodi – troppo salato e calato dall’alto in maniera indiscriminata, lo ripeto -, tutti a piangere. Salvo, poco tempo dopo, rimandare al mittente tutte le promesse sovraniste e di giustizia sociale e rispedire al potere Nuova Democrazia. Ovvero, formalmente, parte sostanziale e sistemica della radice del male. Ecco cos’è il sovranismo, un accidente necessario della Storia affinché si perpetui un sistema andato in crisi per colpe proprie e di terzi.
Certo, il mondo è strano. Fino a pochi mesi fa, ad esempio, Vladimir Putin era generalmente ritenuto un despota con tendenze alla corruttela e alla repressione del dissenso. Oggi, magicamente, la sua intervista al Financial Times prima del G-20 di Osaka sulla fine del liberalismo è diventata oggetto di dotte discussioni politologiche a livello mondiale: di colpo, uno statista. Di più, un filosofo della politica. Perché? Semplicemente perché offre l’alibi: ora va di moda massacrare il libero mercato (che non esiste più, visto che è tutto in mano alle Banche centrali) e la globalizzazione, quasi fosse in atto un rito purificatorio e di penitenza globale. Eppure, che io sappia, Vladimir Putin continua a esercitare potere assoluto in Russia. E con il pugno di ferro. Tutto muta al mondo, affinché nulla cambi.
Volete il prossimo fronte? Nel weekend appena trascorso, mentre la Grecia spediva a casa Tsipras e Deutsche Bank confermava quanto vi aveva annunciato con ampio anticipo, in Turchia il buon Recep Erdogan dava corpo al suo ultimo colpo di teatro, licenziando in tronco il capo della Banca centrale, lo stesso con cui da mesi intratteneva un rapporto di convivenza forzata per le diverse vedute sulla politica monetaria e la difesa della lira. La quale, ovviamente, subito dopo la notizia si è schiantata al suolo nel pre-market. Garantendo, come sempre, al Sultano di poter utilizzare il suo argomento preferito di propaganda da quattro soldi: attaccare la speculazione internazionale che vorrebbe così destabilizzare il suo scomodo governo. Ovviamente tutti sanno che se la lira si ribalta a ogni stormir di fronda è per l’inflazione e il tasso di disoccupazione turchi fuori controllo, per l’indebitamento estero folle che rende Ankara sensibilissima a ogni fluttuazione al rialzo del dollaro e ad altre dinamiche macro interne. Ma, altrettanto chiaramente, risulta più comodo per tutti – potere e cittadini – dare la colpa allo speculatore brutto e cattivo che decide le sorti del mondo, agghindato in un’elegante grisaglia, nel suo ufficio di New York o Londra.
E se la Grecia è andata a zampe all’aria per aver truccato i conti, anche attraverso eleganti e costosissimi swap, ecco che la storia rischia di ripetersi poco più in là dalla terra ellenica, proprio in Turchia. E già odo gli alti lai di chi si scaglierà contro la finanza spietata e a speculazione che va contro la volontà del popolo turco, esattamente come accaduto con la Grecia. Guardate questo grafico, piuttosto. Il quale ci mostra plasticamente come Ankara, nel pieno della crisi della lira dello scorso marzo, fu colta con le proverbiali mani nella marmellata a operare come fece Atene prima del tonfo. In questo caso, gli swaps (frutto della stessa finanza cattiva che Erdogan accusa di un golpe strisciante contro di lui, tra l’altro) sono stati usati in maniera delinquenziale per gonfiare le riserve di valuta estera, tanto per operare un effetto maquillage rispetto alla reale capacità di resistenza delle finanze verso shock esterni, in primis la svalutazione selvaggia della moneta e le conseguenti fughe di capitali e investimenti.
Insomma, oltre alle criticità macro che sono sotto gli occhi di tutti da anni, oggi Ankara sconta verso i mercati anche un doppio peccato mortale, una doppia lettera scarlatta: l’ennesimo gioco delle tre carte sui conti e un ammontare reale di riserve estere che rispetto all’indebitamento corporate a breve in dollari non è in grado di tamponare nessuna situazione di allarme. Siamo nella stessa condizione di Deutsche Bank, la quale con una capitalizzazione di 15 miliardi di euro mette in piede una bad bank da 78 e deve fare i conti con 21 miliardi di esposizione netta ai derivati. Ma, a differenza di Atene prima e Ankara ora, Deutsche Bank ha appena varato un piano da lacrime e sangue vero, senza gridare al complotto dei concorrenti: sa di aver giocato oltre le carte che aveva in mano per anni e adesso si mette drasticamente a dieta. E non piangete per le migliaia di traders, brokers e analisti che lascerà a casa: troveranno un altro lavoro, altrettanto ben pagato. Come hanno fatto quelli di Lehman Brothers, le cui unità più profittevoli furono infatti comprate da Nomura a cadavere ancora caldo. E se anche dovranno “guardarsi in giro” per un po’, essendo parte del meccanismo che tanto giubiliamo ogni giorno, hanno guadagnato abbastanza per permettersi di farlo con il sedere al caldo. Quindi, quando sentirete accuse contro la speculazione infame che si abbatte sul Bosforo, per favore evitate di unirvi al coro dei qualunquisti in servizio attivo permanente.
Un’ultima annotazione, importante perché riguarda direttamente il nostro Paese. Purtroppo, a differenza della Grecia, la Turchia ha un peso geopolitico e una forza militare decisamente superiori che le garantiscono una sorta di assicurazione sulla vita, una franchigia sui prezzi da pagare. Può vantare dalla sua – ad esempio – l’alleanza con Vladimir Putin, sancita a colpi di dollari nell’acquisto di batteria S-400 e, contemporaneamente, la leva dell’essere pietra angolare Nato nel quadrante geopolitico forse più importante al mondo. Insomma, può ricattare in ambiti decisamente delicati. E sapete cos’è emerso nelle ultime ore? Che se la Turchia era stato il centro della triangolazione di armi che vedeva arsenali statunitensi partire dalla Libia per arrivare poi in Siria nelle mani dei “ribelli” anti-Assad, ora il percorso è tornato in attività ma a ritroso.
La Turchia sta infatti garantendo il passaggio di armi dalla Siria in Libia per supportare le milizie fedeli al governo di Tripoli guidato da Fayez al-Sarraj, di fatto alimentando le possibilità di una guerra civile in grande stile nel Paese. Tutto nella logica, ormai consolidata, del conflitto proxy contro le monarchie del Golfo che sostengono il generale Haftar e contro la Casa Bianca e le sue minacce di sanzioni, seguite appunto all’acquisto di batterie S-400 dalla Russia. E se la Libia scoppia, quali siano le conseguenze dirette per l’Italia sono – fin d’ora – chiare a tutti. Altro che Sea Watch 3 e capitana Carola. Signori, sperate che la finanza faccia il suo dovere, sostituendosi alle armi: ricondurre Recep Erdogan a più miti consigli.