Ennesimo strappo tra Lega e M5s sull’autonomia, questa volta su fronti opposti in tema di scuola e di gabbie salariali. E’ terminato così il tavolo a Palazzo Chigi sull’autonomia rafforzata. Secondo i leghisti, è “inutile sedersi a un tavolo che non funziona, con persone che il giorno prima chiudono accordi e poi cambiano idea e fanno l’opposto. Invece di andare avanti si torna indietro. I Cinquestelle condannano il Sud all’arretratezza”. “Al vertice – ha replicato il M5s – la Lega ha proposto di inserire le gabbie salariali, ovvero alzare gli stipendi al Nord e abbassarli al Centro-Sud. Per noi è totalmente inaccettabile”. E il premier Giuseppe Conte, davanti al muro contro muro, pur confermando che sull’autonomia si va avanti, ha chiesto di essere attenti a salvaguardare l’unità del Paese e la Costituzione. “Il problema è che si sta discutendo di autonomia nelle segrete stanze, perché si sta giocando una partita a scacchi e tra pessimi giocatori di scacchi – commenta Roberto Bin, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Ferrara e principale ispiratore del sito lacostituzione.info –. Ma su questo ci deve essere un dibattito pubblico. Io sono molto favorevole all’autonomia rafforzata per il semplice motivo che autonomia significa differenze, per cui auspico che tutte le regioni siano differenziate, proprio perché hanno bisogni specifici. Il rischio, invece, è che qui possa passare una visione malsana e mal fatta di questa maggiore autonomia”.
Il vertice di ieri tra Lega e M5s è finito bruscamente con uno strappo. Perché la partita sull’autonomia si è incagliata? E’ solo questione di divergenze politiche?
No. Il problema è che non è affatto chiaro che cosa si sta facendo, anche perché questo dibattito è tenuto rigorosamente segreto. E’ allucinante. Basti pensare che il sito del Roar ha pubblicato alcuni giorni fa delle supposte bozze di intesa datate metà maggio. Non si sa da dove vengano fuori. E tra l’altro segnalo che sono passate una serie di assurdità nella parte generale e nella parte speciale, che è quella più sostanziale, le Regioni non sono d’accordo su molti punti.
L’opposizione arriva dunque dalle stesse Regioni?
Ma non è chiaro neanche che cosa vogliano le Regioni. E soprattutto non è chiaro perché abbiano seguito una procedura non esattamente costituzionale.
Ci spieghi.
La Costituzione all’articolo 116 recita che deve esserci una proposta delle Regioni sentiti gli enti locali. Questo vorrebbe dire che c’è una comunità regionale fatta di Regione e di Comuni che discute di questi temi. A quanto mi consta la Regione Lombardia, per esempio, non ha sentito il sindaco di Milano. Che la Regione Lombardia avanzi un progetto di autonomia rinforzata senza pensare al ruolo che svolge Milano nella regione, nel paese e nel mondo dimostra che questi non sanno che cosa stanno facendo.
Lei prima accennava alle assurdità. Può citare un esempio?
Quello che hanno fatto le Regioni è di burocratizzare il procedimento.
In che senso?
Hanno chiesto agli uffici: fate l’elenco delle funzioni che sono esercitate dallo Stato, così noi chiediamo il trasferimento e chiediamo i fondi corrispondenti. E’ una logica totalmente sbagliata.
Perché?
Quello che dovrebbe fare un presidente della giunta regionale è interrogarsi: che cosa io attualmente non posso fare e vorrei fare nella mia regione? Posta questa domanda e scoperto che è interessato alle politiche ambientali o a quella della ricerca tecnologica o a quella della formazione professionale, crea uno staff per capire che cosa impedsice di fare delle cose serie e a quel punto scoprirebbe che a mancare non sono le funzioni amministrative e tante volte nemmeno le risorse finanziarie.
Che cosa manca, allora?
Manca la libertà di fare norme, manca il potere legislativo, non quello amministrativo. E’ quello messo sotto torchio negli ultimi dieci anni in Italia: possibile che non si siano accorti? Non c’è legge regionale che sia minimamente innovativa che non venga bocciata. Ecco il vero blocco dell’autonomia: le leggi regionali o sono inutili o sono illegittime. Inutili, perché non cambiano niente o se lo fanno sono illegittime. Questo è il problema, che si può risolvere a costo zero.
Come se ne può uscire?
Le Regioni dovrebbero imparare a trattare con lo Stato, con il governo l’apertura di spazi normativi. Che cosa sta succedendo invece? Che la Costituzione dice che le leggi regionali possono essere impugnate dallo Stato con delibera del Consiglio dei ministri, perché è un atto politico. Il Consiglio dei ministri, che approva delle norme generiche chiamate decreti legge salvo intese, se lo immagina badare alle lggi regionali da impugnare? Le approva a scatola chiusa, per cui a esercitare il controllo sulla legislazione regionale sono le burocrazie ministeriali. Questa è un’inversione del senso della Costituzione: vengono prima le burocrazie e poi le leggi. Questa è la strozzatura che impedisce alle Regioni di fare politiche serie.
A bloccare i progressi c’è anche la questione finanziaria, non crede?
Il governo ha sempre detto, e non poteva dire diversamente, il processo dell’autonomia deve avvenire a costo zero, perché è un’operazione contabile. Se una funzione costa allo Stato una certa somma, il passaggio della funzione alla Regione deve costare la stessa cifra. Chi ci perde? Nessuno. Chi ci guadagna? La Regione, se davvero riesce a essere più efficiente dello Stato, cosa di cui però è lecito dubitare. Se questo è il dogma, la questione finanziaria diventa una questione burocratica: quanto costa l’esercizio di questa funzione riferita a uno specifico territorio? Se invece una Regione dice, per esempi, “Io voglio più soldi, perché voglio pagare di più gli insegnanti”, si pone un problema serissimo: lo Stato deve trasferire più risorse. Le prende dal ministero dell’Istruzione? O dalle altre Regioni, pescando dal bilancio comune? Oppure sono gli abitanti di quella regione che si rendono disponibili a pagare più tasse?
Per provare a riannodare i fili di questa partita da dove si può ripartire?
Facendo politica, nel senso che si dovrebbe tornare a fare quello che è stato fatto da molti presidenti di Regione negli anni Settanta. Dare un ruolo politico alla Regione, dire che cosa vogliono fare da grandi, qual è la loro ambizione, la loro speranza, le loro politiche pubbliche da perseguire.
(Marco Biscella)