Lavorare si deve, per campare; ma ci si realizza altrove: nella vita personale e di coppia. La pensa così il 66% dei teenagers. Il lavoro, poi, molto meglio autonomo che dipendente per il 78% dei maschi e il 64% delle ragazze. Gli uni si sognano liberi professionisti (30%) e creativi (22%); le altre aspirano ad entrare nel mondo della moda, del design o dello spettacolo (46%). Giornalista, insegnante, medico, magistrato? No grazie. Agricoltore? Neanche per sogno. Non pensano a far tanti soldi; si immaginano sì una carriera sprint, cioè di arrivare al top sui 30/35 anni, ma per essi la vera riuscita consisterebbe nel trovare l’equilibrio giusto tra vita lavorativa e vita personale.
L’indagine è stata condotta a Milano dal Laboratorio Adolescenti su un campione di 780 studenti di 14-18 anni degli alunni delle scuole superiori (licei, istituti tecnici, professionali).
Di fronte ai risultati si possono avere due reazioni opposte. La prima, da cinici disfattisti, vede solo limiti: “I giovani di oggi? Lendenoni che non si adattano a niente”. La seconda, da aperti e costruttivi, nota il fuoco del desiderio sotto la cenere. La “presenza – per usare le parole del sociologo Stefano Laffi in un’intervista a Repubblica – di una parte vocazionale forte”.
Perché è sì vero che il 66% non pensa di realizzarsi nel lavoro, ma il 33%, che è pur sempre un terzo, invece sì. E poi, chi l’ha detto che gli altri due terzi non cerchino la realizzazione? Inoltre: nessuno dei ragazzi intervistati pensa – ora come ora, domani chissà? – che i soldi è meglio farli con i soldi; piuttosto, che ci si guadagna da vivere con il lavoro. E in questo sono d’accordo, mettiamo pure a loro insaputa, con papa Francesco: un buon inizio.
Dicono poi diversi studi che a 30-35 anni facilmente al desiderio subentra, nel lavoro, la delusione per molti (il lavoro come condanna o la condanna della disoccupazione se si è finiti tra gli scarti), l’esaltazione per pochi (o per pochi momenti di successo), fino alla dipendenza patologica dal lavoro. Malati di lavoro o fancazzisti: gli uni e gli altri vanno in ufficio o in fabbrica avendo dismesso quel desiderio vivo nei ragazzi.
Si possono fare tante analisi. In soldoni: gli italiani si sono tirati su dopo la guerra con il senso e il gusto del lavoro ben fatto e magari geniale, come qualcosa che ha a che fare con la realizzazione della propria persona e con il bene della propria famiglia e infine della comunità. La mutazione antropologica, lo stravolgimento umano, avvenuto dal debutto del consumismo in poi, ha messo in crisi questo nesso tra lavoro e compimento umano. Le risposte dei ragazzi (che non hanno ancora esperienza diretta della realtà lavorativa) mostrano infatti come un dualismo tra l’esigenza originaria della persona, cioè il desiderio di realizzazione di sé, e le risposte esaltate dal potere dominante, spesso palesemente inadeguate o avariate. Prospettando la felicità nei consumi e la realizzazione di sé nel non dipendere, si favorisce una progressiva trascuratezza dell’io premessa dell’incapacità di affrontare il lavoro reale se non come una condanna (come era nella cultura pre-cristiana).
La domanda è: si può invece imparare (e insegnare) a vivere il lavoro da uomo libero, assecondando il desiderio di realizzazione di sé? È possibile fare un’esperienza convincente del fatto che la dignità del lavoro non è nel prestigio di quello che eseguo ma nella coscienza con cui lo faccio, nel significato che riconosco? Occorre combattere quel dualismo, sanare quella frattura. Forse occorre dare una sveglia a percorsi educativi di ampio respiro che 1) propongano ai ragazzi non performance competenze e risultati, ma un orizzonte ideale, un’ipotesi di significato che appassioni alla realtà tutta, a cominciare dallo stesso studio; 2) aiutino e accompagnino di conseguenza l’orientamento e le scelte, compresa l’introduzione al mondo del lavoro o dell’università. Non abbandonando in premessa identità e passione. L’alternanza scuola-lavoro è un’ottima opportunità, soprattutto se i ragazzi non solo cominciassero a conoscere ambienti, mansioni e organizzazioni, ma anche a incontrare esperienze di lavoro ben fatto da uomini liberi. Maestri. Putacaso, tipo l’operaio della sedia di Péguy.
“Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta (…) Non occorreva che fosse ben fatta per il salario (…) Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura (…) E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali” (L’argent, 1914).
C’è ancora chi fa la sedia così? Non dappertutto, ma c’è. Basta cercarlo. Anche a scuola. E Péguy? Pure. Ma, ahimè, difficilmente a scuola.