Quando anche il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, approfitta della convocazione del vicepremier Matteo Salvini per esprimere la sua aperta insoddisfazione per l’altro vicepremier, Luigi Di Maio, delegato a Sviluppo e Lavoro, vuol dire che la sofferenza del tessuto produttivo italiano sta raggiungendo livelli di guardia. Le statistiche parlano purtroppo chiarissimo: il Pil 2019 ristagnerà al +0,1%, ha ricordato all’assemblea Abi il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Ma anche le parole delle parti sociali – certamente quelle dei leader di Cgil, Cisl e Uil – si fanno ogni giorno più dure e mirate contro la guida della politica industriale. Talora in forme inattese.
Chi non ricorda la lunga stagione No-Tav dell’allora segretario della Fiom, beniamino di molti movimentismi poi rifusi nel magma M5S? È una fase che lo stesso Landini ha dichiarato conclusa all’inizio del 2019, una volta chiamato alla guida della più storica delle organizzazioni sindacali nazionali. Ma sei mesi dopo appare rapidamente superata anche la fase di neutralità istituzionale. Non si fatica comprenderne i motivi. È il vicepremier sedicente “dello sviluppo” a mostrare di non aver sciolto alcun equivoco sul suo ruolo, dopo oltre un anno di permanenza al vertice dell’esecutivo. E mentre la giunta pentastellata di una Torino ormai orfana della Fiat perde più occasioni che pezzi, Landini è nel frattempo costretto a far la spola fra i due estremi della penisola.
Non ci sono solo i cantieri fermi al Frejus: ci sono anche 10mila posti a rischio all’Ilva di Taranto. Dove un sindacalista professionale come Landini non ha potuto, alla fine, non prendere le misure al super-ministro Di Maio rispetto al suo predecessore Carlo Calenda. Il secondo ha portato a casa l’accordo Ilva con ArcelorMittal, in totale coerenza con le linee strategiche di una sinistra liberale europea del XXI secolo: il salvataggio/rilancio dell’occupazione di un gruppo (di una città, di un distretto, di un’Azienda-Paese) va promosso sul mercato, sulle vie della competitività internazionale. In Piemonte come a Taranto.
Invece – a Torino come a Taranto – l’attuale cabina di regia della politica industriale e del lavoro sembra saper soltanto demolire le soluzioni faticosamente costruite da altri (sindacati compresi). E gli ideologismi populisti di Di Maio risultano alla fine più assai anacronistici e pericolosi di quelli abbandonati da molti anni dalla Cgil nel secolo scorso cinghia di trasmissione della sinistra storica. La Cgil – più di trent’anni fa – ha saputo perdere la battaglia della scala mobile. La cattiva guerra che Di Maio non vincerà mai la sta perdendo l’intero Paese.