I banchi di nebbia brianzola sono una cosa seria. L’ho imparato durante un’imperscrutabile sera di novembre, nel 2011. Appena atterrato da Catania all’aeroporto di Milano Linate, mi recai direttamente al Circolo Magnolia su una Fiat Panda molto vintage, con la mia compagna. Fu un’impresa attraversare la foschia e arrivare in tempo per la prima del Nati per Subire Tour, un altro tassello per la scalata al meritato successo dei The Zen Circus, che avrei nuovamente intervistato per IlSussidiario.net. Ad aprire la serata, un giovane gruppo dal nome curioso e l’aspetto da matricole universitarie un po’ nerd, ma già con un piccolo e scatenato seguito. Si misero a suonare e la loro tagliente proposta, seppur acerba, strideva enormemente col modo scanzonato che avevano di presentarsi. Sembravano non prendersi sul serio, e quell’aspetto ludico rischiava di definirne anche la musica. Avevo già sentito Lei , vedendogliela interpretare, pensai m’avesse fatto un’impressione sbagliata: avevo immaginato un gruppo a metà strada fra Management del Dolore Post-Operatorio e Il Teatro degli Orrori, ma sul palco stavo osservando un mood più simile a Elio e le Storie Tese in versione indie rock formato chitarre-basso-batteria, ma senza virtuosismi di matrice Frank Zappa in chiave progressive, né arrangiamenti folli e prolissi. Insomma, un rock goliardico. I Fast Animals and Slow Kids mi diedero l’idea di non aver ancora trovato un’identità artistica, seppur dimostrassero di possedere le qualità per riuscirci.
Quasi tre anni dopo, nello stesso posto, ero intento a guardare i miei conterroni Marta sui Tubi sul Palco Pertini al Mi Ami 2014, stavolta da inviato del quotidiano La Sicilia. A un tratto, un messaggio della mia compagna m’invitava a raggiungerla di corsa sulla Collinetta di Jack, dove la kermesse all’Idroscalo riservava un palco alle novità più entusiasmanti della scena indipendente italiana. Raggiunta la cima, giusto in tempo per i bis, rimasi sconvolto nell’osservare dall’alto una bolgia simile a un blob dedito al pogo, mentre faceva saltare per aria le transenne che la separavano dal gruppo on stage. Il cantante ondeggiava sul pubblico e cantava con lui, mentre la band suonava in un’intensa comunione emotiva con gli astanti, che urlavano a squarciagola l’inno A cosa ci serve. Erano i Fast Animals and Slow Kids! Capelli e barbe erano più lunghi, i vestiti più scuri, la loro musica era sbocciata; anzi, esplodeva proprio sotto i miei occhi! Mi precipitai al banchetto della Woodworm, l’etichetta indipendente per cui incidevano, e acquistai Hybris, di cui avevo appena ascoltato un paio di pezzi. Insieme con A Sangue Freddodei già citati ITDO, rimane uno degli album più travolgenti partoriti dal rock italiano nell’ultima decade. Il resto è storia, bellissima da raccontare: “Siamo una band che si evolve spesso. Continuiamo ad andare avanti per trovare nuovi stimoli, altrimenti diventa noioso. Noi cerchiamo sempre di cambiare. Ti perdi tutto, se fai il ‘talebano’ in musica!”. Aimone è l’epitome del frontman: una carica live travolgente, un’empatia evidente con la sua gente, una freschezza d’animo contagiosa. Lui la esprime in testi che non demordono, pur attraversando le amarezze del vivere. Animali Notturniè uscito il 10 maggio scorso e non ci ha messo molto a convincere critica e ascoltatori, con una raccolta di undici tracce più armoniosa e omogenea rispetto al passato. Il loro punk rock dalle venature emo è sempre lì, arcigno e diretto, solo un po’ più levigato e pulito. Il gruppo – con Alessandro Guercini, Jacopo Gigliotti e Alessio Mingoli – era già sulla strada, quando il disco ha fatto irruzione nelle sonnacchiose classifiche italiane, e con platee sempre in aumento: dalla fiumana del 1° Maggio a Roma, all’exploit del 4 giugno al Biografilm Park di Bologna. Ora, continuano a macinare chilometri in furgone, per un’estate che li sta portando sui palchi di tutto il Paese, Isole comprese. “Gli 8.000 spettatori a Bologna sono stati un’affluenza record, per una nostra esibizione. Al 1° maggio erano di più, ovviamente, ma lì si tratta di un evento collettivo”.
A proposito di numeri, Animali notturni si apre con delle cifre e un sotteso malinconico. Adesso la band non è più un affare per pochi: sia dal punto di vista artistico, per via del consenso nazionale; sia da quello umano, per i conseguenti cambiamenti nelle vostre vite.
Soprattutto a livello personale! La canzone che dà il titolo all’album è un po’ una grande riflessione sulla musica, che da una parte è meravigliosa, dall’altra drammatica: ti porta lontano, spesso ti fa cambiare, togliendoti delle certezze. Penso a quanti amici ho perso per strada, mentre io stavo seguendo i miei percorsi. L’amicizia, così come l’amore, va coltivata e altrettanto la musica; di conseguenza, qualcuno ruba il tempo a qualcos’altro, e viceversa. Il brano è un po’ malinconico perché è una presa di coscienza sull’assunto che i tempi cambiano e non puoi farci nulla: hai già deciso cosa perseguire, nel momento in cui la musica è diventata il tuo primo interesse. È ovvio che sceglierai in funzione di questa passione, di questo “demone” che nascondi! Noi abbiamo già fatto una scelta ma ogni tanto rifletto su come sarebbero andate le cose, se non avessi preso questa decisione. Quindi, il testo racconta quello che forse in parte ti viene tolto, ma anche ciò che è bello affrontare, perché il cambiamento è comunque interessante, non causa sempre e solo nostalgia fine a se stessa. In definitiva, Animali Notturniè più una considerazione che un’analisi nostalgica sul tempo che passa.
Inutile prendersi in giro: chi suona sul serio vuol arrivare al maggior numero di persone, facendo di una passione un lavoro, nel senso più nobile del termine. Magari senza svendersi e a modo suo. È un privilegio, quando si realizza. Ne parlai tempo fa qui, con l’amico Andrea Appino dei The Zen Circus, mentre erano ancora in rampa di lancio. Proprio lui, nel 2011, vi ha permesso d’entrare in studio con Giulio Ragno Favero (ITDO) per il debutto Cavalli. Un disco irrisolto, che presentava un complesso in cerca di se stesso e di un sound, ma con almeno due gemme: Lei e Copernico. Oggi, al quinto LP, i FASK sono un gruppo magniloquente, con un suono che vi definisce nel profondo. Ci siete arrivati gradualmente, dopo il big-bang dell’imprescindibile Hybris (2013), l’oscuro Alaska (2014) e l’eterogeneo Forse non è la felicità (2017), usciti per la lungimirante Woodworm – rimasta management dei FASK – prima della firma con la Warner.
Hai usato una parola molto corretta: è un privilegio trovarci in questa situazione! Quando una cosa ti piace tanto e riesci a trasformarla nello strumento di sussistenza per la tua vita, allora continui ad andare, non ti fermi e non ci pensi. L’altro ieri magari ero a Bologna, poi ho fatto altri show; nel frattempo, ho rivisto i video delle esibizioni, ripensato ai pezzi… La mia testa è sempre dentro la musica: ti ci perdi e non ci fai caso, dato che non vuoi fermarti! La vedo un po’ come chi ha un impiego che ama parecchio e non crede di stare lavorando per davvero, perché semplicemente ne è conquistato. In più, la musica ha un fattore particolare, come in tutti gli ambienti artistici: ti permette d’esprimere te stesso, quindi ti dà più soddisfazione di un’occupazione normale. Forse è per questo che dà assuefazione, rispetto ad altri lavori piacevoli. Riversi in essa la tua realtà, e la musica diventa lo specchio con cui parli al mondo. È la tecnica con cui riesco a dire le cose che non so spiegare a voce nel quotidiano. Sotto certi punti di vista, dopo un po’ diventa una sorta di droga, perché rimani incastrato nella visione per la quale senza la musica non riesci a vivere. Allora, anche la tua realtà si plasma in funzione di essa, perché ormai la musica sei tu! È su queste basi che ci sentiamo molto vicini ad Appino e ai The Zen Circus, con cui continuiamo a sentirci regolarmente.
Sei mai assalito dalla saudade da fine tour? Scendi dal furgone, entri in casa e ti assale il magone. Nel nuovo disco – su Canzoni Tristi – c’è un passaggio in cui, appena disfatte le valigie, vorresti già rifarle.
Sì, è una sensazione collegata a questo, e confermo assolutamente la tua considerazione; da un altro punto di vista, è connessa anche al resto della mia vita in generale. Per via del mio lavoro, sono ormai talmente abituato a non avere un luogo, a non appartenere a niente e a nessuno, che mi sembra quasi di perdere tutto, anche le mie origini. Così, a volte, mi domando a cosa appartengo. Cos’è che mi caratterizza? Normalmente, la mia risposta torna sempre alla musica, che mi definisce. Sembrerà banale, ma è così che funziono!
In Cinema e Dritto al Cuore si ravvisano elementi nuovi nel sound dei FASK. Nella prima, fascinazioni dall’indie-rock statunitense più melodico; nella seconda, la new-wave britannica.
In parte è così, di certo vale in pieno per la tua prima osservazione. Infatti, su Cinema, c’è proprio quel pianoforte appena accennato facilmente riconducibile ai The National; sicuramente, è una cosa arrivata dall’ascolto compulsivo dei loro dischi! Apprezziamo in modo incredibile anche gli Arcade Fire. Come giustamente fai notare, si tratta di riferimenti musicali, che emergono inconsapevolmente quando componi una canzone, che può ricondurre a tutti quegli ascolti che hai accumulato durante un anno o più. La trovo una cosa molto bella: in fondo, più ascolti, più hai immaginazione; di conseguenza, la tua musica può soddisfare le tue nuove aspettative sonore. La new-wave britannica, invece, è qualcosa che non abbiamo mai sentito consapevolmente ma, per esempio, i miei genitori suonavano in continuazione quei dischi, mentre io crescevo; li avrò captati in maniera inconscia, seppure per i FASK non rappresentino delle influenze, al contrario dell’indieamericano.
La vostra scrittura è rimasta d’alta qualità, perlomeno da Hybris in poi.
Grazie! Siamo sempre in cerca di noi stessi, non credo questa cosa cambi, forse è una necessità umana. Cavalliera una sorta di best ofdegli anni precedenti, molto disomogeneo: l’esordio di una formazione sconosciuta, che raccoglieva quanto fatto fino ad allora. Dopo, abbiamo iniziato a scrivere dischi in modo compiuto e in periodi ben circoscritti; con un retaggio anni Novanta, se vuoi, cioè lavori coerenti e organici dall’inizio alla fine, sviluppando un percorso artistico e personale all’interno d’una dozzina di brani. Questo crea un immaginario più concreto.
Su Animali Notturni le chitarre di Alessandro dominano meno la scena, seppur rimangano alla base del vostro suono. C’è più spazio fra gli strumenti. La sezione ritmica di Alessio e Jacopo è calda e ovattata, con la tua voce che si eleva sul tutto. Scelte che hanno molto a che fare col nuovo produttore, Matteo Cantaluppi (Thegiornalisti, Ex-Otago, Bugo).
Assolutamente sì, la tua analisi è esatta. Era un risultato che avevamo sempre auspicato ma prima facevamo tutto da soli, perché ci andava bene comunque. Vivevamo semplicemente l’esperienza di riuscire a tirar fuori da noi stessi il meglio che potevamo, più che altro a livello umorale e compositivo. Dopodiché, ci siamo resi conto che erano già tre volte che ripetevamo lo stesso modus operandi e dovevamo darci nuova linfa, andando in un vero studio e non più nel casolare in campagna. Il suono non è un gioco, va trovato e amalgamato; scovarlo è un lavoro composto da grandi professionalità. Non è qualcosa che trovi fra le tue quattro mura, con le tue quattro apparecchiature! Così, abbiamo iniziato a pensare a qualcuno che avesse fatto di questa ricerca una missione a livello professionale, e abbiamo coinvolto Matteo Cantaluppi, l’ultimo di una lista di produttori con cui avevamo pensato di collaborare. Quello che si sente su Animali Notturniè esattamente ciò che volevamo ottenere. C’è voluta grande ricerca, duro lavoro e studi di registrazione che potessero offrirci il materiale tecnico adatto a incidere nel modo che volevamo.
Su Vice, avete giocato classificando i vostri album. Alaska era al secondo posto; ci sta, dal punto di vista qualitativo dei brani, ma forse non da quello delle sonorità: un po’ ripiegate su loro stesse, compresse e cupe. Nel 2014, fu un processo voluto?
Le nostre capacità tecniche sono cresciute con l’evoluzione della band. Quindi, certe volte, non avevamo ancora quel qualcosa in più che ci sarebbe servito. In Alaskaquesto si sente, perché avremmo voluto realizzarvi tante cose che non siamo riusciti a raggiungere, come risultato. In quel disco, dal punto di vista sonoro, forse non siamo stati neppure in grado di comunicare bene fra noi: ognuno tirava da una parte, magari opposta a quella dell’altro. Ricordo discussioni accesissime! A un certo punto, abbiamo optato per una via di mezzo, ed è stato un processo molto lungo. In definitiva, però, è stato un lavoro che ci ha soddisfatti, perché abbiamo premiato l’istintività, l’urgenza, la capacità d’esprimere un concetto molto chiaro e intenso nel giro di poche canzoni, e non capita spesso. Io credo molto nella magia della musica, quando un sentimento che essa riesce a esprimere e a veicolare tocca tutti i componenti di una formazione e, in seguito, i suoi ascoltatori. Ecco, quel sentimento, quella particolare sensazione, era già lì con noi mentre incidevamo Alaskae, alla fine, ci ha uniti molto. Per me era un momento molto pesante, e la realizzazione di quell’album ci ha fatto fare un passo avanti anche all’interno dei rapporti nel gruppo. La nostra amicizia si è ulteriormente rinsaldata.
D’altronde, i dischi sono fotografie dello stato di una band in un preciso momento.
Assolutamente! Questa è la base, noi ragioniamo proprio così. Per molti complessi, comporre è un gioco artistico senza tempo. Per noi non è affatto in quel modo, ma esattamente al contrario: il tempo e i momenti li dettiamo noi, con le nostre vite legate alla musica. Scriviamo di noi stessi, a volte siamo terribilmente egocentrici nel farlo, ma ciò determina uno stile compositivo che è connesso all’istante e al ‘qui e ora’ che viviamo, ed è una necessità espressiva. Non potremmo mai scollegare tutto ciò dall’esistenza quotidiana che conduciamo e condividiamo insieme, come amici e come band. Di conseguenza, in realtà, io non potrei mai scegliere un solo disco fra quelli dei FASK, perché sarebbe come preferire un periodo della mia vita rispetto a un altro, e invece sono tutti importanti per me. Provo la stessa nostalgia per ogni fase che ho attraversato.
Le caratteristiche principali di certo rock anni Novanta erano, appunto, l’immediatezza del “qui e ora” e gli album come testimonianza del vissuto. Ce n’era un’altra: l’intima immedesimazione dell’ascoltatore con gli artisti. Voi, con i tuoi testi e sul palco, avete un modo simile di connettervi al pubblico: niente artifici, questo e ciò che vedi e avrai.
Esatto, non abbiamo mai provato a mascherare o a filtrare nulla. In noi, puoi apprezzare pregi e difetti, questi in misura maggiore dei primi, magari! Però, di sicuro, siamo davvero una band onesta. Questa è la musica che ci piace e la suoniamo. Queste sono le cose che vogliamo dire e le diciamo. Poi, scopriremo se saremo entrati in connessione con qualcuno o se non ci considererà nessuno! Punk significa esprimere ciò che si vuole, l’importante è non privarsi mai della libertà di raccontarsi e di liberarsi tramite la musica. Senza questi presupposti, per noi non avrebbe neanche senso suonare. Farei un altro lavoro, forse più redditizio! Spero si percepisca, perché per me è basilare: faccio musica per via della sua funzione catartica, e la suoniamo come piace a noi, perché questo ci spinge a farla insieme e questo vogliamo.
Nel 2015 – all’Obi Hall di Firenze, con Il Pan del Diavolo e i Ministri – ti rivolgesti alla folla chiedendole se stavate facendo la cosa giusta, se dovevate continuare. Fu tenero ma anche inedito e molto umano. Per me, rappresentò la cifra di tutto il percorso dei FASK fino ad allora. Fare il musicista o tentare di costruirsi una carriera con l’arte e la cultura è durissimo, soprattutto nel nostro Paese. Hai paura di non farcela o che finisca male. Puoi giocarti il futuro, in un certo senso, ma continui comunque, a prescindere dal ritorno che ne avrai, perché sei così e basta: è la tua natura e, se la negassi, allora sì che inizierebbero i veri guai, parafrasando Patti Smith! Fu per questo che, nel salutarti dopo lo show, vi augurai lo stesso successo commerciale dei Litfiba, perché quell’invocazione emozionata al pubblico mi toccò profondamente.
Magari! Sarebbe un sogno se andasse così ma, al tempo stesso, non vogliamo neppure pensarci troppo al successo. L’importante è che la band continui ad avere quest’effetto sulle nostre vite, e cioè permetterci di stare un po’ meglio, di vivere bene la nostra quotidianità, di essere persone più buone, oneste, che riescono –tramite la musica –a mettere dentro le canzoni quelle piccole problematiche, e non necessariamente i grandi problemi del mondo, che altrimenti renderebbero la nostra esistenza peggiore, se dovessimo sfogarle in un altro modo. Invece, così, le gettiamo via e possiamo permetterci una quotidianità migliore, un rapporto più sano e tranquillo con i nostri amici, senza stupide velleità, perché le nostre aspirazioni le risolviamo già suonando davanti alle gente. Alla fine, in fondo, questa è la cosa che conta di più: stare meglio. Ormai, abbiamo smesso di pensare a cosa stiamo facendo. Siamo musicisti e facciamo musica, finché dura. Quando non ci sarà più, faremo altro.
A questo punto, quindi, te la butto lì: l’università l’hai poi finita?
Sì, alla fine ho preso la triennale in Biotecnologie e avevo iniziato anche la Specialistica. Ero abbastanza bravo, amavo molto la Chimica, studiare mi dava piacere. Per fortuna, o purtroppo, la musica ha assorbito tutta la mia capacità esistenziale e ho dovuto abbandonare. Alla mamma ha fatto comunque piacere! Le ho detto: ‘Guarda, mamma, mi sono laureato!’. E lei: ‘Ecco, ora puoi dedicarti alla musica!’.