Forse la situazione che stiamo vivendo, quella reale, non è chiarissima. Provo a spiegarla, brevemente. Tanto per mettere le cose talmente in prospettiva da capire intuitivamente perché sia assolutamente necessaria la strategia di distrazione di massa in atto, a livello globale, ormai da mesi e mesi. E, statene certi, destinata da qui al prossimo anno ad aumentare pesantemente di volume. Forse, sfociando addirittura in conseguenze concrete. Guardate il grafico più in basso, ci mostra una correlazione decisamente inquietante: Tesla, il gigante dell’auto elettrica, il riferimento mondiale dell’alternativa al fossile, la sigla che in sé incarna l’idea stessa di modernità e avanguardia, sta ricalcando in pieno le orme di Enron, il gigante energetico statunitense schiacciato dai debiti in soli, mitologici 24 giorni. Anche per Enron sembrava che l’unico limite fosse il cielo: invece, è finito in una pozzanghera e tempo di record. Dalle stelle alle stalle. Anzi, al default.
Sicuramente è solo una coincidenza, però pensateci. Elon Musk, il discusso, carismatico e variopinto numero uno di Tesla, non è perennemente sulle prime pagine dei giornali e dei siti mondiali per qualche “brillante”, nuova intuizione? L’ultima, dopo il viaggio sulla Luna, è l’impegno del suo impero nel campo dell’intelligenza artificiale, la frontiera suprema del domani. Eppure, nel frattempo, Tesla precipita. Perde un manager al giorno, tutti in libera uscita prima che il Titanic affondi, mentre negli Usa ogni giorno appaiono cronache legate a incidenti per autocombustione – apparente – dei veicoli. Ma come si fa a raccontare sul serio, a 360 gradi, cosa sta accadendo a quel marchio così iconico? Non si può. Per il semplice fatto che le sue disavventure finanziarie mettere in discussione, giocoforza, l’intero teatrino ambientalista e dell’automotive alternativo e pulito, la colossale fregnaccia del Green New Deal di Alexandria Ocasio-Cortez, non a caso sempre più sugli scudi, ora anche invitata dal presidente Donald Trump a tornare a casa sua (ovvero, nel Bronx) in caso non le vada bene la politica dell’immigrazione statunitense.
Certe icone non si possono toccare, trattasi di iconoclastia del politicamente corretto: peccato che nel mondo moderno non prevede perdono, né espiazione. Guarda caso, poi, qual è stato uno degli elementi cardine del discorso programmatico di Ursula Gertrud von der Leyen, nuova numero uno della Commissione Ue? La svolta verde dell’Unione nella lotta ai cambiamenti climatici. E guardate ora questo altro grafico, un’altra brutta correlazione regalataci questa volta dal modello proxy di comparazione fra l’andamento attuale dello Standard&Poor’s 500 rispetto a quello del 1998. A occhio e croce, ci siamo. E come finì quell’anno? Maluccio, perché rappresentò il prodromo dello scoppio della bolla tech, a sua volta l’antipasto del 2008, la prova generale del primo grande reset finanziario della storia. E signori, le analogie con quanto accadde all’epoca, venti anni fa, sono tante. E vanno ben oltre l’andamento grafico di un indice di Borsa.
Cosa accadde infatti nel biennio 1998-1999, quale fu la sequenza degli eventi che portò al tonfo dot.com? Beh, ricorderete che si partì con il botto, visto che il mondo dovette per la prima volta aprire gli occhi su quanto di poco gestibile stava dietro il miracolo finanziario dei titoli tecnologici con un combinato di eventi creditizi che inviò uno shock sistemico su Wall Street: crisi asiatica, dei mercati emergenti e caso Ltcm. Una botta di quelle siderali. Ma non bastò. Anzi, parzialmente bastò. Perché mandò la Fed in modalità panico, visto che quell’insieme di criticità innescò quello che venne definito un baby bear market, ovvero una correzione che parve a rischio strutturale e ciclico. Federal Reserve in pre-allarme e pronta ad agire.
Detto fatto, un’ondata di dati macro negativi dell’economia Usa operò da detonatore: taglio dei tassi, era il settembre 1998. Un mese dopo, l’effetto di quella mossa divenne visibile a tutti: i titoli azionari volarono e partì una chiara divaricazione verso l’alto delle equities rispetto all’obbligazionario. Il mese ancora seguente, novembre del 1998, le aspettative inflazionistiche crebbero in maniera significativa e continuarono a gonfiarsi per tutto l’inverno, tanto che nel febbraio del 1999 le commodities rischiarono di andare fuori controllo, in totale inversione verso l’alto rispetto ai bond corporate. Bruttissimo segnale di fiammata, rischio inflattivo e di bolla.
Detto fatto, nel giugno del 1999 la Fed cominciò ad alzare i tassi. A marzo del 2000, dopo parecchi segnali che gli investitori più accorti seppero cogliere al volo, lasciando tutti gli altri con il cerino in mano, la bolla tech esplose. Non vi ricorda qualcosa? La Fed in modalità normalizzazione dei tassi che cambia idea a causa di tonfi dei mercati e rischio bear market, ad esempio? La divaricazione fra equities e obbligazionario, magari? O la bolla in espansione? O, magari, le aspettative inflazionistiche che, dopo l’ennesimo ed emergenziale ciclo di stimolo, finalmente salgono ma vanno in fretta fuori controllo? Non vi ricorda qualcosa?
No, ma tranquilli: non siamo dentro il Matrix del 1998, è solo una stupida correlazione casuale fra indici. Ed eccoci al terzo grafico, forse il più interessante e quello con maggiore appeal di cronaca, visto che Deutsche Bank ha appena annunciato al mondo un piano di ristrutturazione a dir poco draconiano: abbandono del trading di equities (qualcuno mi pare ve lo avesse anticipato, visto che frau Merkel per sopravvivere aveva bisogno di fare pace con la Casa Bianca), 18mila esuberi da qui al 2022 e, soprattutto, creazione di una bad bank dal nome esotico di Cru (Crisis Resolution Unit, roba che ricorda CSI) destinata a raccogliere e stipare assets a rischio in attesa di liquidazione per un controvalore che è 8 volte la capitalizzazione attuale della banca, ridotta a soli 15 miliardi di euro.
Deutsche è la nuova Lehman? Così parrebbe dire il grafico. Ma io penso di no. Per il semplice fatto che il mondo ha sì bisogno di un casus belli eclatante, riconoscibile e sufficientemente spaventoso da garantire mano libera totale alle Banche centrali, ma il rischio che l’operazione Frankenstein vada fuori controllo con DB è davvero alto. Troppo alto. Per una ragione semplice, terminata drammaticamente sotto gli occhi di investitori e analisti in questi giorni e rispondente al nome di “rischio di controparte”. Nel silenzio generale dei media, troppo impegnati a fare fotografie ai dipendenti licenziati delle sedi di Tokyo, New York o Londra, ecco che un’analogia pesantissima con il caso Lehman è apparsa su radar. E no, non si tratta dei dipendenti con i badges disattivati e gli scatoloni in mano. Si tratta del fatto che, come Nomura si gettò sul cadavere ancora caldo di Lehman per strapparne a prezzo stracciato le unità ancora operative e profittevoli, ecco che Bloomberg l’altro giorno dava notizia delle trattative in atto fra DB e Bnp Paribas, al fine di giungere a un accordo per il trasferimento al gigante francese di 150 miliardi di euro che gravano sul bilancio della banca tedesca e che fanno riferimento al suo ruolo di prime-brokerage unit europea nei confronti di hedge funds.
Insomma, DB si chiama fuori dai giochi che contano, quelli che garantiscono miliardi, ma che ora non può più permettersi, se vuole sopravvivere, e si prepara a cedere il tutto al concorrente francese, ben felice di assumere il ruolo di riferimento in Europa nel ramo di brokeraggio nei confronti dei fondi speculativi. I quali utilizzano le grandi banche come clearing houses dei loro trading, soprattutto quelli su derivati, aprendo a tal fine presso quegli istituti conti operativi con parecchi zeri che lasciano a bilancio riserve in eccesso che fanno davvero comodo. Qual è il problema? Sono tre.
I primi due sono intuitivi: l’ammontare dell’esborso economico per Bnp Paribas e la volontà di quest’ultima, ovviamente, di vedere bene cosa ci sia dentro i bilanci di DB, prima di subentrare. Il terzo? Al netto di una Bce fortemente a connotazione francese, sia come nuovo governatore che all’interno del Single Supevisory Board, come facevo notare nel mio articolo di ieri, quindi decisamente ben predisposta verso l’operazione (stante anche il rischio sistemico posto da una crisi di DB che vada fuori controllo in seno al piano di ristrutturazione), Bloomberg faceva notare che gli stessi hedge funds che per anni hanno sfruttato l’operatività di brokeraggio di DB per fare trading stanno scappando a gambe levate. Bocciatura totale del piano draconiano del Ceo, Christian Sewing o semplice paura di rimanere scottati? Chi lo sa, di certo è che nell’articolo – non smentito – si parla di ritiro di fondi dai conti operativi degli hedge per un controvalore di 1 miliardo di dollari al giorno, una vera bank run. Per placare la quale, pare che il board di Bnp Paribas si sia affrettato a contattare i principali fondi speculativi per rassicurarli e placare un po’ la fuga di massa dei rami più profittevoli del gigante teutonico: gli stessi che i francesi vorrebbero ora papparsi a un prezzo decisamente invitante, se si pensa solo alla sua valutazione di due anni fa.
Ecco qual è la situazione attuale sui mercati, alla faccia degli indici più o meno sempre allegri, dei rendimenti sottozero anche per emittenti junk e degli spread sovrani placidi come laghi alpini. Capito perché l’Europa non può permettersi una crisi politica e Ursula Gertrud von der Leyen sarebbe stata eletta comunque, anche facendo votare di nascosto i commessi e i baristi dell’Europarlamento? Forse, qualcuno questo discorso lo ha fatto ai 5 Stelle. E lo hanno capito. E forse è stato fatto anche ai leghisti. I quali, però, o non lo hanno capito o non hanno voluto capirlo. O giocano una partita tutta loro e parallela. Resta un fatto, innegabile: la situazione attuale è la più delicata che il mondo stia vivendo, a livello economico-finanziario, dal 2008 in poi. Molto più della crisi del debito del 2011 e delle due fiammate legate ai tremori negli emergenti e al processo di tapering della Fed, prima con Bernanke e ora con Powell.
Nessun errore è concesso, nemmeno il più piccolo. Capito perché servono continue cortine fumogene, scandali e distrazioni di massa? Perché altrimenti c’è il rischio reale che la gente, giustamente, cominci ad avere davvero paura. E l’intero castello della rivoluzione sovranista che avrebbe finalmente insegnato la lezione alle élites crollerebbe.