Bisognerà ringraziare Luciano de Crescenzo, per aver instancabilmente ricordato che la filosofia ci è necessaria per vivere, come il respiro, come l’acqua, il cibo. Perché vivere, non sopravvivere o vivacchiare, significa usare la ragione, e non rinunciare alle sue domande fondamentali: ed io che sono, per citare Leopardi, che fa la luna in ciel, e che senso ha questa vita mortale. O immortale? E che significato hanno il male, il dolore, e come riunire gli esseri umani in una comunità, come dettarne le regole, salvando la specificità della persona e la libertà. Pare banale. Ma la filosofia, cioè la ricerca della verità, è stata appaltata per troppo tempo agli studi accademici, o alle velleità di qualche intelligentone, oggi si direbbe nerd. Capace di discettare dei massimi sistemi, da ammirare a distanza o ridicolizzare, ritagliandone ritratti bizzarri, astrusi, fuori dal mondo. Quando la filosofia è esattamente la strada per conoscere il mondo, e operarvi.
Luciano de Crescenzo, affabulatore, nascondeva con maestria e vezzo partenopeo la sua sapienza: ha capito che anche ai meno dotti toccava spiegare lo sforzo dell’uomo per conoscere i misteri del reale, e raccontare l’eterna insistenza dei nostri padri, per dialogare con il mistero dell’essere. Così, ha cominciato a scrivere libri che sprezzantemente sono stati chiamati “divulgativi”, e invece consentono di avvicinare materia complessa, di incuriosirsi dei protagonisti del pensiero, di farsi domande. Peccato che divulgare, letteralmente distribuire al volgo, celi maldestramente un pregiudizio snob. Il volgo siamo noi, i nostri figli. E si impara più dalla storia della filosofia di de Crescenzo che da tanti manuali verbosi e lezioni soporifere, ancorché conseguenti ai dettami scolastici.
Sta a chi legge, e assapora il gusto dell’inquietudine, approfondire, chiedere, sfrondare dall’aneddotica, che pure è la strada per far gustare le cose ai bambini: che poi crescono, e si muovono da soli nello scibile, se qualcuno – con le fiabe, con i miti – ha seminato sapori. Luciano de Crescenzo ha usato il racconto, qualche volta la favola, o il fumetto, scandalizzando, facendo storcere il naso ai puristi (lo faceva apposta, ne sono convinta) ma ci ha restituito come vicini personaggi lontani, ha invitato con leggerezza ad approcciare temi difficili, a divagare sulle tracce di eroi, dei e semidei.
Ai suoi conterranei tocca ricordare quanto ha amato ed esaltato la sua Napoli, ai cinefili e ai critici televisivi il suo lavoro di autore, interprete, con la regia e la compagnia di maestri del cinema e della tv, dalla Wertmuller ad Arbore e Benigni. Bisognerà ringraziare Maurizio Costanzo per averlo fatto conoscere a un grande pubblico, dal suo salotto-show, e averne fatto un caso mediatico, di questo ingegnere gentiluomo e allegro che aveva scelto semplicemente un terreno non suo, come se non fosse di tutti percorrerne i solchi. È la colpa che non gli hanno mai perdonato, il successo, la popolarità (quante volte si lamentava che a lui, mai un pezzetto in una terza pagina…), mentre lo perdonano volentieri a Camilleri.
Io lo ricordo col suo sguardo sornione, la sua allegria, la compiacenza con cui guardava il panorama di Roma dalla sua terrazza sui Fori, la simpatia con cui apriva la sua porta ai più giovani, mescolandosi, tra una facezia e una storia, ai loro interrogativi, alle loro curiosità. Ha sofferto tanto, spiace non averlo recentemente incontrato: anche il suo volto stanco, la sua sofferenza l’hanno accomunato col tempo ai saggi che ha letto e spiegato, senza mai perdere in eleganza e sprezzatura. Rara virtù, quando ci si prende troppo sul serio, e ci si innalza a monumenti civili, dimentichi del dogma socratico, che ci fa coscienti solo di non sapere.