Ieri il presidente del Consiglio, con una lettera pubblica, si era rivolto direttamente ai cittadini della Lombardia e del Veneto per spiegare le ragioni che impongono di correggere le proposte di autonomia differenziata avanzate da queste Regioni. A stretto giro, i presidenti delle due Regioni, Attilio Fontana e Luca Zaia, hanno risposto con un messaggio pubblico che non è soltanto una sfida rivolta al presidente del Consiglio. È anche e soprattutto una sfida interna alla Lega ed al centro-destra che verrà.
Che sia così, è dimostrato dal linguaggio utilizzato – in vero, poco consono al tono istituzionale della vicenda – e dagli argomenti impiegati, alquanto roboanti e strumentali. Neppure il più sfegatato fan dell’autonomia differenziata, infatti, potrà mai credere che l’obiettivo primario del Lombardia e del Veneto sia davvero “la semplificazione” della “vita di chi lavora, studia e vive” nelle Regioni interessate. L’accusa rivolta agli “atti ministeriali” che produrrebbero “ulteriore burocrazia”, poi, contraddice una realtà incontrovertibile: qualunque forma di decentramento produce inevitabilmente un incremento delle norme, dei commi e di quei famigerati “combinati disposti” tanto temuti dai due presidenti. E basta leggere il testo delle proposte formulate dalle Regioni per comprendere come queste richieste siano assai lontane dal presunto obiettivo di “superare la sovrapposizione di compiti e funzioni che oscurano le responsabilità”.
Anche le accuse rivolte al presidente del Consiglio sono così accese da risultare fuori misura. Giuseppe Conte sarebbe il responsabile primo e ultimo di una vera e propria strategia di attacco alle due Regioni i cui presidenti si sentono “presi in giro”. Non sarebbe “davvero il garante della Costituzione vigente”, e non avrebbe denunciato le “false notizie diffuse con malizia e cattiva fede”, pur sapendo “bene quanti e quali Ministri si sono impegnati in questa irresponsabile gara a spararla più grossa”. In sostanza, Conte farebbe la doppia parte in commedia, in quanto, pur “dopo colloqui diretti” con i presidenti, sarebbe adesso paladino “di scuse assurde e tesi fantasmagoriche”. Ma i presidenti non si sono accorti che esistono posizioni differenziate all’interno della maggioranza di governo? Mirare esclusivamente al bersaglio grosso, significa nascondere la più semplice delle verità: neppure il capo politico della Lega appare ormai particolarmente vicino a questa iniziativa, almeno per come sinora è stata (mal) condotta.
La Lega di Salvini non è più quella di Bossi e Maroni, perché vuole diventare forza nazionale e capace di trovare consenso in tutto il Paese. Chi ha suggerito la strategia di queste Regioni ha preteso troppo: ad esempio, in nome di un “Nord capace di reggere la competizione internazionale” perché altrimenti “l’intero Paese ne pagherà le conseguenze”, si vogliono, gratuitamente, le infrastrutture che sono state costruite con i denari dei cittadini tutti. Moderazione e vero senso dello Stato sono quindi altamente consigliabili, se si intende dare corretta attuazione all’art. 116, terzo comma, della Costituzione.
Di fronte ad un procedimento che i presidenti considerano ormai come una “farsa”, essi si impegnano a non firmare l’accordo “senza qualità come quello per ora che si sta profilando”. Ed avvertono Conte con una minaccia neanche tanto velata: se l’autonomia differenziata non sarà esattamente quella da loro voluta, “qualcun altro la farà”, perché “la spinta verso l’autonomia (…) è ormai inarrestabile”. Ma è a tutti chiaro che il confronto politico, soprattutto quanto concerne gli interessi dell’intera comunità nazionale, non può mai essere ridotto ad una farsa, e che minacciare un corpo politico “per turbarne l’attività” (art. 338 c.p.) è un reato. Forse è sfuggita la penna.