Su un’isola tropicale al largo della Florida, un uomo di nome Baker Dill (Matthew McConaughey in versione scapigliata) vive da solo e trascorre le giornate a pescare, sia per mantenersi, sia per soddisfare la sua personale ossessione: catturare il tonno gigante che ha chiamato “Justice”, “Giustizia”. Ha un’amante occasionale (Diane Lane) e una barca, beve troppo e nasconde un passato oscuro.
Serenity, il film di Steven Knight, inizia così, come la storia della lotta tra un uomo e un pesce, tra l’eroe dannato e il “mostro” con un forte valore simbolico, con chiari accenni a “Moby Dick” e a “Il vecchio e il mare” di Hemingway. Ma ben presto prende una direzione molto diversa, trasformandosi in un noir quando ricompare l’ex moglie di Dill, Karen (Anne Hathaway in versione bionda), con una disperata (e scandalosa) richiesta d’aiuto per sé e per il figlio: il suo attuale marito è un miliardario violento e il ragazzino si è isolato nel mondo virtuale dei giochi online. Sapendo di poter fare presa sull’amore che lega Dill e il loro bambino, Karen chiede al suo ex di portare a pesca il sadico marito e ucciderlo.
Dill rifiuta di trasformarsi in un assassino e chiede all’amico Duke (Djimon Hounsou), che rappresenta la voce della sua coscienza, di aiutarlo a resistere alla tentazione. La situazione precipita quando Dill inizia ad avvertire un legame con il figlio, che sembra “parlargli” da lontano, in modo misterioso. Ecco che il film cambia ancora e la storia prende una piega alla Truman Show, portando il protagonista e lo spettatore a sospettare che l’isola non sia reale, ma generata dalla mente di qualcuno che sta cercando un modo per affrontare una realtà dolorosa e angosciante.
Non basta la presenza di un cast di tutto rispetto, anche se non ispirato, a rendere Serenity un film convincente, né a compensare i pasticci della trama. L’effetto sorpresa del twist finale è sistematicamente sgretolato dai tanti, troppi indizi che il regista offre allo spettatore, a cominciare dall’impiegato che insegue Dill con una valigetta e continua a mancarlo per pochi secondi. Questa figura ambigua riporta alla mente film come I guardiani del destino e svela subito che l’isola è un posto strano e il protagonista è al centro di un gioco più grande di lui.
Forse Serenity voleva essere un film sul tormento di un uomo onesto a cui viene chiesto di commettere un’azione terribile per salvare il figlio, intrecciato con il dramma di un ex militare che si è isolato dal mondo con i suoi fantasmi e deve affrontare le conseguenze delle sue scelte. Il risultato, però, lascia spiazzati, non perché sorprende, ma perché confonde. Il passato di Baker Dill sembra essere un mistero anche per lui, visto che, al di là dello sguardo cupo e di qualche accenno sparso, non sappiamo cosa l’abbia portato a separarsi dalla moglie e da un figlio che ama. Il rapporto con Karen si riduce a qualche ricordo rievocato nei dialoghi e una scena di sesso tutt’altro che romantica, mentre gli abitanti dell’isola, che dovrebbero contribuire a creare un’atmosfera inquietante, sono in realtà figure piatte che si svelano ben presto per quello che sono, personaggi virtuali.
L’idea della vita come gioco poteva aprire una riflessione interessante e attuale, ma in qualche modo si perde nei ripetuti errori del film, altrimenti non si uscirebbe dalla sala con la sensazione di avere assistito a un gran pastiche infarcito di errori e soluzioni inefficaci. Peccato, perché da Steven Knight ci si aspettava senza dubbio un risultato molto diverso.