Sempre più spesso, nel leggere i commenti ai vari provvedimenti che interessano la scuola, trovo frasi del tipo “ha vinto il Governo”, “ha vinto l’interesse dei lavoratori” “abbiamo vinto noi”. Mai, finora, “ha vinto il buonsenso”, che in questa terminologia bellica sarebbe l’unica vittoria ammissibile. Il guardare alla scuola come ad un luogo in cui si contende non sulla qualità o sull’efficienza, ma sull’esercizio del potere, mi sembra non solo una cosa riprovevole, ma il messaggio più diseducativo che possiamo mandare ai ragazzi, alle famiglie, alla società e agli stessi insegnanti.
In questo momento di pausa estiva, spenti i riflettori sulla grande sceneggiata dell’esame di Stato, sarebbe bello usare il tempo disponibile per una riflessione non occasionale. I sociologi dell’educazione, al sorgere di questa disciplina sul finire dell’Ottocento, si chiedevano: a che cosa serve la scuola? In che modo collabora alla costruzione del bene comune? Questa visione strutturale è stata poi superata da un’altra, in cui le domande erano diventate: perché le persone vanno a scuola? Che cosa pensano di ricavarne? Al momento, non mi pare che queste domande abbiano avuto una risposta soddisfacente. Per carità, non che io aspiri ad una risposta unica e valida ovunque, per chiunque e in ogni tempo, che ritengo utopica e impossibile, ma mi sembra di dover respingere con tutte le forze la risposta che le politiche educative servono a determinare vinti e vincitori. In una concezione umana, più che non corretta, dell’educazione, non ci sono vinti e vincitori: per usare un modo di dire anglosassone, le politiche educative devono essere win-win, vantaggiose per tutti: oggi sono piuttosto lose-lose, hanno perso tutti.
Qualche esempio? Le dissennate decisioni relative al reclutamento degli insegnanti hanno avuto l’esito di scatenare la bulimia assunzionale dei sindacati, che probabilmente aspirano a reintrodurre il precettore, e quindi sono contrari per definizione; hanno scontentato gli insegnanti, ovviamente gli esclusi, ma anche gli inclusi, che lamentano di dover lasciare il luogo di residenza, anche per comprensibili ragioni; hanno disatteso le aspirazioni delle famiglie ad avere docenti non solo stabili ma di qualità; hanno gettato nello sconforto i dirigenti, che si trovano non solo a combattere le battaglie con i soldati che hanno (i paragoni bellici vengono spontanei), ma non sanno neppure se e quando avranno dei soldati.
Per restare ai dirigenti, l’indecoroso spettacolo dei concorsi che non vengono banditi, se vengono banditi vengono annullati, e se vengono annullati vengono poi “sanati”, non solo danneggia gli aspiranti dirigenti, ma rende quasi impossibile un governo efficace della scuola, in cui alcuni (eroici?) sopravvissuti si sforzano di mandare avanti una barca che sembra sempre sul punto di affondare. Ancora: se si riscontra uno scollamento tra i voti della maturità e “gli Invalsi” (preoccupante neologismo che pare indicare, più che i test di larga scala, pericolosi alieni che minacciano l’esistenza stessa della scuola), anziché riflettere sul persistente divario fra le diverse zone del paese, e sull’opinabilità della valutazione tradizionale, si riduce la portata degli “Invalsi” auspicandone la scomparsa in un finale degno di Guerre Stellari, o almeno della cavalcata delle Valchirie di Apocalypse now.
Mi fermo qui, non per esaurimento di esempi (i lettori che operano/mandano i figli nella scuola possono continuare a piacimento), per esempio parlando dell’autonomia, ma per ribadire il concetto iniziale. La scuola è un momento alto di servizio alla società civile, un luogo fondamentale per la socializzazione e la crescita personale delle nuove generazioni, in cui la trasmissione delle conoscenze e delle competenze avviene in un contesto di relazioni dotate di significato che non può essere sostituito dalla Rete, e che va integrato con la famiglia. Il quadro desolante che ho forse troppo ironicamente delineato è fortunatamente contrastato da molti esempi positivi di scuole e di persone che operano esattamente in questo senso, avendo a cuore innanzitutto la persona dei loro ragazzi, piccoli e grandi.
Ho da tempo rinunciato alla speranza che le politiche educative operino per sostenerli e premiarli: chiedo troppo, se auspico che per lo meno non vengano attivamente ostacolati, presi prigionieri o dispersi in questa insana guerra che non può avere se non sconfitti?