Immersi in un’Italia popolata da personaggi della politica il cui spessore storico è in attesa di conferma, vale la pena ricordare la statura e la portata di giganti come Giovanni Giolitti, troppo in fretta dimenticati. E lo facciamo attingendo alle pagine del nuovo volume storico di Aldo A. Mola Giolitti. Il senso dello Stato (Rusconi, 2019).
Giovanni Giolitti, nato nel 1842, morto nel 1928, fu cinque volte presidente del Consiglio tra il 1892 e il 1921. Deputato dal 1892 alla morte, più volte ministro (del Tesoro, delle Finanze, dell’Interno) fu il motore della svolta liberale di inizio Novecento e delle grandi riforme politiche, economiche e sociali che affermarono l’Italia tra le grandi potenze. Varò il diritto di voto universale maschile, ottenne la sovranità dell’Italia sulla Libia, liberò Rodi e il Dodecaneso dal dominio turco. Nel 1914-15 tentò invano di scongiurare l’intervento dell’Italia nella Grande Guerra, che previde lunga, sanguinosa e devastante per gli equilibri interni e internazionali. Monarchico e democratico, avversò l’avvento del regime a partito unico seguìto alla “Marcia su Roma” e al ritiro dei parlamentari sull’Aventino, e dal 1924 votò sempre contro le iniziative del governo Mussolini.
Ne parliamo con l’autore dell’approfondito volume, Aldo A. Mola, che ha dedicato mezzo secolo allo studio di Giolitti ed è autore di una serie di apprezzate opere storiche sulla monarchia in Italia, sull’unificazione nazionale, sulla crisi del ’22, sul referendum monarchia-repubblica del ’46. Direttore dell’Associazione di studi storici “Giovanni Giolitti”, è presidente del comitato scientifico del mensile Storia in Rete, e, dal 1980, è medaglia d’oro per la Scuola, la Cultura e la Scienza.
Nelle pagine del suo libro, Mola ha ricostruito vita, pensieri, azioni di Giolitti sulla scorta di centinaia di inediti, scelti tra i molti disponibili. Ne viene fuori un personaggio nuovo e diverso da quello che abbiamo studiato sui libri di storia. Molto di più dell’“uomo di Dronero”.
Dunque, professor Mola, inquadriamo storicamente la visione politica e il ruolo di Giovanni Giolitti.
Giolitti era convinto che la monarchia costituisse la base di cui il Paese aveva bisogno per non sfasciarsi sotto la spinta di animosità antiche. Sostituto procuratore all’età di 25 anni, segretario generale della Corte dei Conti a 37, deputato a 40, ministro a 47, cinque volte presidente del Consiglio, dette il nome ad un’età della storia d’Italia: per valutazione consolidata, la più prospera e progressista. E fu anche l’unico capo di governo che, per sottrarsi all’uso politico della magistratura, nel 1895 riparò all’estero, eludendo il carcere e peggio, nel fondato timore di giudici asserviti al potere.
Quale fu la spinta che lo fece entrare nell’agone politico?
Aveva compreso che per tentar di “fare gli italiani”, anche un lavoratore come lui doveva “entrare in politica”, non quale mero osservatore come da oltre dieci anni era, al seguito dei ministri che ne avevano bisogno, ma da protagonista. Fu un “brutto mestiere”, anzi “Una gran brutta vita”, come concluse 45 anni dopo. Era l’unica via, però, per varare le grandi riforme e realizzare le opere pubbliche di cui il Paese aveva urgenza. Non solo quelle gigantesche (ferrovie, strade, caserme, acquedotti), ma anche una miriade di ospedali, scuole, uffici postali.
Furono quelle opere a caratterizzare l’epoca che ancora porta il nome di “età giolittiana”.
Senza dubbio. Infatti, l’“età giolittiana” è l’equivalente di svolta liberale, progresso, Stato forte ma non liberticida, leggi sociali, provvedimenti speciali per il Mezzogiorno, tutela del patrimonio archeologico e artistico, e così via, fino all’impresa di Libia (che dichiarò la sovranità dell’Italia su un territorio tre volte il suo, e sul Dodecaneso), e al suffragio universale maschile, in attesa che, sulla scia del primo Congresso delle donne del 1908 cui partecipò sua figlia Enrichetta, giungesse l’ora del voto universale alle donne.
Perché si dissociò dalla decisione del re e dei partiti di entrare in guerra a fianco della Triplice Intesa (Francia, Russia e Gran Bretagna)?
Nel luglio 1914, proprio quadro l’Europa stava per sprofondare nella Grande Guerra, Giolitti decise di fare il suo primo viaggio a Londra. Aveva 72 anni, e, per via dei suoi continui impegni di lavoro, non vi aveva mai messo piede. Contava anche di visitare la Valle del Reno, che da lì a poco sarebbe stata messa a ferro e fuoco. Si schierò per la neutralità dell’Italia. Era convinto – e la storia gli darà ragione – che sarebbe stata una guerra lunga, costosa, sanguinosa: una “inutile strage”, come la definirà Papa Benedetto XV.
Resta da affrontare la sua coraggiosa decisione di opporsi, senza dubbi e tentennamenti, alla conquista del potere ad opera del partito di Mussolini.
Negli anni seguiti al “golpe” del 28 ottobre 1922, Giolitti rimase il custode dello Statuto, calpestato dal governo nell’imbarazzato silenzio del re. Fece sentire forte la sua voce in aula, mentre gli “aventiniani” tacevano o migravano all’estero. Fu lui a votare contro la limitazione della libertà di stampa e la riforma elettorale del maggio 1928, che – ammonì – rompeva la continuità dello Statuto: un monito lanciato non tanto a Mussolini (che aveva i suoi motivi per volerla) bensì a re Vittorio Emanuele III.
(Luciano Garibaldi)