Una storia che arriva dalla Nigeria apre ulteriori frontiere nel già complesso mondo della bioetica. Si parla di due gemelle siamesi, nate con la maggior parte degli organi vitali in comune, destinate a non sopravvivere nel rapporto simbiotico che oggi scandisce la loro esistenza.
Il padre delle bimbe, che oggi hanno tre anni, è volato a Londra con la moglie e gli altri figli per sentirsi dire che l’unica possibilità di salvezza è quella di far sopravvivere una delle due. L’uomo è un musulmano sufi, persona molto religiosa e dotata di un forte rigore morale, e dopo un’attenta riflessione ha deciso di non scegliere quale figlia salvare, ma di lasciare che la natura faccia il suo corso, consegnando entrambe alla morte. “Ha scelto – queste le sue parole – di far parlare il cuore” di padre e la sua fede, evitando il dramma di una decisione le cui conseguenze avrebbero accompagnato la vita di tutti, genitori, fratelli, piccola sopravvissuta.
Non è semplice entrare in una storia del genere, ma due elementi senza dubbio mi colpiscono: la tecnica, oggi, ci permette un potere sulla vita che fino a pochi anni fa era impensabile. Questo potere per che cos’è? È giusto usarlo sempre? Che cosa c’è in gioco?
Si tratta di esporsi in dibattiti complessi e non immediati. Quello che capisco io, a partire dalla mia esperienza, è che il potere che ci è dato ha un unico scopo: quello di aiutarci ad amare, quello di farci seguire il bene. Noi abbiamo strumenti grazie ai quali ci è offerta la possibilità di fare del bene alla vita nostra e altrui. Già, ma qual è il criterio di questo bene?
Mi ha molto colpito il verbo usato dai giornalisti e forse da altri del settore: scegliere. Eppure il bene da perseguire non si persegue mediante delle scelte fra fattori neutri: il bene si sceglie seguendolo, stando dietro a quel che nella realtà accade ed emerge come indicazione. Nel cristianesimo si dice che l’Incarnazione è il metodo di Dio e l’Incarnazione è una preferenza: Dio che preferisce un volto per amarci tutti. Seguire i segni che portano a salvare una di quelle due bimbe non significa uccidere l’altra, ma rendere possibile a quella bimba di essere unica e irripetibile, non copia di sua sorella, ma segno tangibile di un Mistero che ha valore non perché vive ottant’anni, ma perché c’è.
Noi umani non diamo la vita ai nostri figli per goderceli come ci si gode un elettrodomestico o una vacanza: noi non diamo la vita a nessuno, ma partecipiamo al gesto con il quale un Altro ci rende spettatori e protagonisti di un dono, il dono dell’Essere. Questo dono c’è anzitutto perché noi seguiamo l’Essere nella vita dei nostri figli, tossicodipendenti o depressi che siano, strani o “normali”, disabili o geniali. Ma per seguire Qualcuno bisogna avere il coraggio di lasciare andare quel Qualcuno. Un genitore è chi segue e lascia andare, non chi gestisce e trattiene, non chi amministra e sistema, non chi sceglie e determina.
Io non so che cosa debba fare il padre di quelle gemelline: so solo che ha tutti gli elementi davanti a sé per fare una strada e che stare fermi non serve a niente. Perché l’unica scelta davvero significativa per quel padre, e per ciascuno di noi, è la scelta che uno fa per se stesso. Se star dietro al Mistero della vita o se trincerarsi dietro ai criteri e ai ragionamenti con cui il mondo cerca sempre di spiegare, in fondo, il proprio disimpegno con se stessi e con il Tu che genera la vita.
Se non guardiamo niente non abbiamo volto, ma solo un’insieme di reazioni cui bisogna dare un ordine, una gerarchia, un senso. Perché affannarsi tanto quando è così semplice seguire? Dal silenzio di queste notti d’estate guardiamo quelle due piccoline e ci rendiamo conto che la partita della nostra vita – chiunque noi siamo – è tutt’altro che chiusa. Anzi, è solo all’inizio.